QUAND'ERO PICCOLO
Nuvole bianche in un cielo azzurro, stelle splendenti in notti buie, distese di campi di grano con piccoli papaveri rossi disseminati qua e la, la neve bianca ed i ghiaccioli appesi ai cornicioni delle vecchie case di mattoni, l'orto pieno di verdure e miriadi di fiorellini bianchi nel piccolo prato dietro casa. Le campane delle chiese che suonavano di mattina e di sera, in autunno nel cielo, decine di uccelli migratori solcavano nella perfetta forma a V la distesa celeste, l'odore delle castagne al fuoco nel camino, il rumore dei ruscelli in primavera mentre nei campi attorno germogliavano fiori di ogni colore e nell'aria il cinguettio di nuove nidiate sugli alberi.
Quand'ero piccolo era tutto ciò che sentivo, vedevo attorno a me. La memoria non mi ha mai ingannato nel corso degli anni e ricordo tutto precisamente.
Vivevo nella casa della nona materna in campagna dove tutto aveva il sapore di antico, dove si potevano vedere cavalli che trainavano carri pieni di fieno ed il fumo del camino uscire dai comignoli nelle giornate fredde d'inverno. Il fiume che passava poco lontano scorreva lento tra gli alberi che cambiavano colore ad ogni stagione, quando ancora le stagioni c'erano. Ogni mese aveva il suo "profumo", quelli che mi piacevano di più erano dicembre e gennaio dove le luci e i colori degli addobbi natalizi davano un'atmosfera magica ai miei occhi, dove le castagne al fuoco
creavano qualcosa di arcano nelle giornate buie del primo mese dell'anno e poi giugno, con il suo calore, i suoi colori nitidi, i campi coltivati appena fuori paese e le prime feste dove la gente ballava in piazza. Allora potevo uscire nei cortili attigui, cortili uniti da passaggi nascosti dietro le case confinanti, e giocare fino a sera con gli amichetti fingendosi a volte cowboy, a volte indiani, spesso spie o guerriglieri sempre alla ricerca di tesori nascosti, ovviamente ai luoghi davamo nomi inventati. La cantina dove c'erano le botti di vino, erano le segrete, il solaio poteva diventare sia la base del capo delle spie sia il castello dei fantasmi. La guerra ovviamente la si faceva tra i vari cortili, il mio era quello inglese, quello vicino il tedesco e via di questo passo. Poi la merenda, immancabile alle quattro e mezza del pomeriggio, ogni giorno e poteva essere, tea con biscotti, naturalmente fatti in casa, pane burro e zucchero oppure pane burro e marmellata e una spremuta, non certo le sofisticate merendine così pubblicizzate ai giorni nostri.
Ero felice, o almeno pensavo di esserlo ma vivevo in bilico tra la famiglia tradizionale e quella moderna, la nonna era fin troppo all'avanguardia e molto attiva, leggeva molto anche i grandi classici e poesie, sua figlia, mia zia andava già in vacanza da sola negli anni 50 con le amiche, quindi donna indipendente, la prozia, sua sorella timorosa di Dio, mi portava quasi tutte i pomeriggi a messa e cercava di convincermi, in futuro, di farmi prete, mancava in quella famiglia. Io dicevo di si e lei era contenta, ma ancora non capivo perché mi piacesse andare con lei in chiesa, poi da grande capii che fosse l'arte ad attrarmi. Ricordo dipinti, statue, oggetti intarsiati e stavo quei tre quarti d'ora a osservarli mentre un brusio di preghiere provenivano da lontano alle mie orecchie. Poi c'era l'asilo e tutti quei bambini del boom anagrafico dei primi anni sessanta, non ho mai capito bene come facessero tre suore, un''inserviente e la superiora più due cuoche a contenere centinaia di piccoli pesti, solo nella mia classe eravamo una quarantina. Eppure quell'asilo mi sembrava un regno, dal giardino delle rose dove c'era la statua di una madonna in preghiera, il pollaio e dietro un campo selvatico da dove si intravvedevano fiorellini selvatici gialli e rossi e delle fragoline piccole. Cera il grande albero nel cortile opposto, cortile ghiaioso diviso da una passaggio al coperto che portava dalla casa principale dove avevano le camere le suore, la direzione, la sala ed il refettorio alle aule di scuola e i gabinetti. Un albero che ci vedeva giocare in attesa dell'arrivo dei genitori dopo aver fatto il piccolo pisolino pomeridiano delle quindici.
Ero proprio un sognatore, allora mi sembrava tutto bello, colorato, profumato. vivevo di sensazioni, di atmosfere, di giochi e il sabato e la domenica stavo con la mamma, che lavorando molto, poteva (turni permettendo), venire a farmi visita la sera o il mattino quando ero dalla nonna. Papà tanto non c'era quasi mai, non mi chiedevo il perché era naturale stare con chi mi amava e vedevo tutti i giorni. Persone che ho amato molto e che mi hanno insegnato tanto, come i nonni paterni, persi troppo presto anche loro, conobbi pure i bisnonni paterni, infatti eravamo tutti nati a breve distanza come generazioni. Ricordo che non dormivo finché la prozia mi raccontava qualche favola, spesso inventate perché le solite mi annoiavano e infine cadevo nel sonno abbracciato al mio orsacchiotto preferito, orsacchiotto che visse con me fino ai 25 anni.
Poi un giorno, il vento cambiò, la nonna non stava più bene, la zia si sposava, la casa era troppo vecchia e mamma aspettava un bambino... Mi trasferii a casa dei miei definitivamente e la nonna con prozia al piano di sotto... Nella mia mente, nella mia fantasia quel vento sentivo che non mi avrebbe più regalato le magie a cui ero abituato, che mai più avrei rivisto i vecchi amici e l'orto con i fiori bianchi nel prato e così. Ma capii un giorno guardando negli occhi azzurri e gelidi di mio padre fissi su di me, che io non sarei mai più stato il bambino di allora... E così fu.
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