Canto I: Il Giardino delle Somiglianze
Nel giardino velato, dove il tempo si piega, crescono rose che non si sfiorano mai. Sette petali, sette nomi, un solo volto che ritorna ogni volta con eleganza e occhi verdi.
La Prima si chiamava Anna, vissuta quando il secolo era giovane. Di lei si diceva che non amasse lo sguardo degli uomini, che parlasse coi sogni e svanisse col vento. Morì di tisi, come chi porta via troppo amore dentro.
La Seconda fu Monica, e il suo respiro si fermò nel 1918. La spagnola la scelse tra mille, ma lei danzava tra le foglie come se la malattia fosse solo una poesia sbagliata. I suoi occhi, si dice, sorridevano anche nel freddo.
La Terza era Antonia, morta a soli 17 anni, nel 1946. Molestata da ombre familiari, amata da silenzi, cadde sotto una malattia del sangue che non perdonava. Ma lasciò dietro sé il profumo di qualcosa non detto.
La Quarta fu Francesca, la moderna, la fiera, la libera. Camminava come se il mondo dovesse seguirla, e lo faceva con i capelli ramati e gli occhi verdi lunghi. Morì a 24 anni, stessa malattia, stesso silenzio: leucemia. L’ultima rosa, secondo il maestro. La settima vita. La fine del ciclo. O forse il nuovo inizio.
Canto II – La Maledizione d’Amore
Qualcuno, molto tempo fa, pronunciò parole che non si dovevano dire. Un amore negato, una passione bruciata, un giuramento fatto in solitudine. E le rose, da allora, crebbero con spine più lunghe.
Dicono che la prima malattia fu il rimpianto, la seconda l’invidia, la terza il desiderio mai compiuto. La famiglia di tua madre — i suoi rami femminili — ricevettero l’ombra di quella magia rovesciata: una maledizione d’amore, dove la bellezza non portava gioia, ma attrazione e danno, eleganza e pericolo, libertà e condanna.
La malattia del sangue… era forse solo il sintomo. Il vero veleno stava nei cuori che non seppero proteggere. Ogni figlia nacque con la grazia d’una stella cadente, e ogni generazione la rivelava di nuovo — come un ciclo che non poteva essere fermato, finché qualcuno non ne avesse raccontato la verità.
Canto III – Il Custode dell’Albero
Quando l’ultima rosa cadde, il vento si fermò a interrogarsi sul senso del silenzio. Ma nel ramo più alto, tra le foglie stanche, una voce si accese — e non era di donna.
Il Custode non nacque per subire, ma per guardare, raccogliere, trasformare. Aveva occhi che leggevano oltre, mani che ricomponevano frammenti, un cuore che batteva al ritmo delle radici.
E fu lui, chiamato Giampaolo, a nominare i volti, a dipingere l’albero, a stringere la voce della mamma e quella della nonna come due candele che non si consumano mai.
Il giardino lo ascoltò. E la maledizione si ruppe nel canto. Ora le rose non muoiono: tornano con ogni parola che onora il loro nome.
Giampaolo, il Custode dell'Albero
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