sabato 6 settembre 2025

Addii senza addio

 A chi parte senza essere salutato. A chi resta senza essere visto. A chi ha amato nel silenzio, e ha avuto il coraggio di ricominciare. Questa storia è per voi. E per me.

Giampaolo



Addii senza addio

Era una decisione presa non completamente da me. Era il 1995, avevo solo trentacinque anni: nel pieno della forza, della giovinezza, della bellezza… e della sofferenza. Mamma stava sempre peggio. Gli psichiatri l’avevano ormai presa in carico e, nel giro di poco, sarebbe stata ricoverata definitivamente in un istituto. I parenti erano spariti, come spesso accade quando si ha davvero bisogno di sostegno. A volte penso sia una barzelletta poco divertente. Altre, una tragedia greca.

Papà era assente da tempo. Anzi, era diventato un nemico, solo perché avevamo scelto di stare accanto a mamma dopo la separazione. Francesca era morta da soli quattro anni. In quattro mesi avevo perso il lavoro, non avevo più denaro, e nemmeno l’affitto mi era stato rinnovato. Così, come in un incubo, quel mattino feci le valigie. Dopo l’ultima doccia in quella casa tra il fiume e il castello, vidi riflessi negli specchi i miei occhi azzurri, tristi. I capelli biondi lunghi, la bocca serrata, senza un sorriso.

La sera prima, tre amici di Milano mi avevano promesso che sarebbero venuti a prendermi nel pomeriggio. Mi avrebbero portato a casa loro, dove mi aspettava una stanza con un piccolo bagno e un lavoro di quattro ore in una chat line. Sapevo che, in poche ore, non sarei più tornato nella cittadina dove — nel bene e soprattutto nel male — avevo vissuto mancanze, perdite, qualche gioia. Avevo salutato i miei amici con le solite promesse false: “Ci sentiamo”, “Ci rivediamo”, “Rimaniamo in contatto”… le frasi che si dicono quando si sa che non accadrà.

Mamma, nonostante avesse visto le valigie, non sapeva che presto i dottori — che mi avevano detto di andare via, di iniziare una nuova vita, che a lei ci avrebbero pensato loro — l’avrebbero ricoverata. Avevo sistemato tutto in banca: il denaro, la pensione d’invalidità, l’accompagnamento e quella di lavoro. Tutto sarebbe stato gestito dalla banca con la mia firma, tenendo aperto il suo conto. Mi avevano aiutato molto. La retta dell’istituto sarebbe stata pagata da lì.

Quando arrivarono i miei amici nel pomeriggio, avevo finito di piangere. Presi due delle tre valigie; la terza la portò Memma, in silenzio, con uno sguardo che diceva più di mille parole. Mamma sembrava felice di mandarmi via. O almeno, così appariva. Nella sua mente confusa, forse pensava che stessi andando in vacanza. Mi guardò come si guarda uno sconosciuto e mi disse: “Buon viaggio.” Poi si voltò e se ne andò verso casa, ignara del suo destino. Mi lasciò di sasso. Come fossi un estraneo. I miei amici non seppero cosa dire.

Caricammo le valigie nel portabagagli. Salii sul sedile posteriore dell’auto. E partimmo. Milano ci aspettava. La mia nuova vita mi aspettava. Non mi voltai nemmeno per guardare le case, le persone, le strade. Dopo una mezz’ora, vidi Milano stagliarsi davanti a me, in quel pomeriggio freddo di fine inverno. Chiusi gli occhi. Pregai per me.

La macchina fu inghiottita nel traffico. Le strade sembravano zampe, tentacoli di un ragno o di una piovra. Ci aveva inghiottiti, diventando parte delle migliaia di esseri che popolavano quella città. Dalla finestra della mia nuova camera vedevo dei giardini. E la notte. Era iniziata la mia nuova vita. E non sapevo dove mi avrebbe portato.

 

Nota d’autore

Questo racconto nasce da una memoria che non ha mai smesso di pulsare. Nel 1995, a venticinque anni, ho lasciato una casa, una madre, una città — e una parte di me. Non è una storia inventata. È una verità vissuta, fatta di addii che non hanno avuto voce, di strade che non ho più percorso, di sguardi che non ho più incrociato. Scriverla oggi non è solo un atto di ricordo, ma di riconciliazione. Con il dolore, con la forza, con la vita che mi ha portato altrove.

Giampaolo

 

Riflessione finale

Non sempre si parte per scelta. A volte si parte perché la vita ci spinge, ci strappa, ci costringe a lasciare ciò che amiamo. Nel 1995 non ho voltato lo sguardo, non per indifferenza, ma per protezione. Perché voltarsi avrebbe significato spezzarsi.

Milano non mi ha regalato nulla. Ogni passo l’ho conquistato da solo, con fatica, con silenzi, con notti lunghe. Non era il futuro che avevo immaginato, ma era quello che mi aspettava. E oggi, guardando indietro, non cerco giustificazioni. Cerco solo di comprendere.

Le scelte e il destino imposto hanno segnato gli anni. Ma io li ho vissuti. E questo racconto non è un lamento, né una richiesta. È una testimonianza. È il modo in cui dico: “Sono stato lì. Ho sentito tutto. E sono ancora qui.”


Giampaolo Daccò Scaglione

Emmanuel e Giampaolo – Una storia vera di amicizia

Una storia vera della mia infanzia. Alla fine degli anni '60, ho incontrato Emmanuel, un ragazzo ebreo che è diventato il mio più caro amico. Abbiamo condiviso weekend, risate, sogni e un legame che andava oltre la religione, la cultura e la lingua. Questo ricordo vive in me, soprattutto ora che il mondo affronta nuovi conflitti. Lo condivido sperando che qualcuno, da qualche parte, possa ricordarsene. E se così non fosse, che questa storia rimanga un simbolo di pace, innocenza e amicizia.

"Questa è una storia vera. Se qualcuno riconosce Emmanuel o la sua famiglia, per favore mi contatti. Li ho cercati per molti anni. La memoria è pace."


Emmanuel e G
iampaolo – Una storia vera di amicizia


Emmanuel e Giampaolo

עמנואל וג'יאמפאולו


"Stai fermo... Ok, ora la foto... No, no, Emy, sorridi! Paolino, avvicinati a Emy... Pronto? Eccoci."

"Mamma, mi chiamo Emmanuel, non Emy. E Paolino è Giampaolo", rispose la mia compagna di giochi del fine settimana a Milano, dove nonna Maria mi portava dalla sua casa di campagna a trovare il suo fidanzato, un uomo gentile con gli occhi verdi che chiamavo zio, che aveva incontrato dopo la morte del nonno.

Myriam era la madre di Emmanuel. Aveva lo stesso nome ebraico di nonna Maria, e avevano più o meno la stessa età. Myriam aveva sei figli, ed Emmanuel era il più giovane, nato quando lei aveva quasi quarant'anni. Per me, avere una nonna poco più che quarantacinquenne era motivo di vanto, e il suo cognome orientale la faceva sembrare ancora più vicina a Myriam, come una sorella e una collega.

Emmanuel divenne uno dei miei più cari amici. Eravamo come i biscotti "Ringo", diceva, anche se la sua pelle e i suoi capelli neri e ricci non erano poi così scuri. Era convinto che nonna Maria fosse ebrea come lui.

"Guarda il suo cognome. Il tuo è francese, il suo è orientale!" diceva, pronunciandola con la "r" arrotondata tipica della sua lingua. Ne ero affascinato, anche se mi prendeva in giro per la mia "r" morbida, che all'epoca era quasi un tormento, soprattutto a scuola.

D'estate, trascorrevamo i pomeriggi allo zoo di Porta Venezia (ora per fortuna solo un parco), o all'Idroscalo. In altre stagioni, anche con i miei genitori, andavamo con la famiglia di Emmanuel in gite ai laghi e nei luoghi che zio P. conosceva bene: noi cinque in una Fiat 1100 color bordeaux, e la famiglia di Emmanuel in un grosso furgone.

Eravamo come gemelli. Condividevamo la pittura, l'osservazione delle stelle, la ginnastica e una reciproca antipatia per il calcio. Giocavamo a nascondino, correvamo per i campi vicino al fiume Lambro, tra fiori, grano e ciliegi.

A otto o nove anni, il mondo era più colorato. Spesso camminavamo mano nella mano per i sentieri del paese, anche se la mentalità ristretta poteva etichettarci come "diversi". In città, tutto sembrava normale: avrei voluto che i miei genitori si trasferissero lì, ma avevamo un'altra nonna di cui prenderci cura.

Non c'era cattiveria nei nostri cuori. Nella sua stanza o nella mia, ci sdraiavamo fianco a fianco a leggere fumetti o a guardare la TV, poi scoppiavamo a ridere e rotolavamo sul tappeto a lottare. Poi arrivavano i panini al burro e zucchero o la marmellata con il tè nel pomeriggio.

Myriam e nonna Maria erano bellissime: occhi scuri, pelle olivastra, capelli corvini, curve e grazia, con voci adorabili.

Adam, il terzo fratello di Emmanuel, ci portava spesso alle prove della sua band in cantina. Suonavano canzoni beat e rock: un sogno. Emmanuel si muoveva come Jimi Hendrix, imitando i riff di chitarra, mentre io fingevo di suonare la batteria. Ci scambiavamo sguardi pieni di malizia. Dimenticatevi dello Zecchino d'Oro e di quei ragazzini vestiti in coordinato che cantavano canzoni sciocche...

Se questo non era amore fraterno, non so cosa lo fosse. Una sera, mentre gli altri erano a cena, io ed Emmanuel eravamo nella sua stanza quando scoppiò un temporale. Urlò al primo tuono.

Sua madre corse a consolarlo. Non capivo la sua paura: i temporali erano normali per me. Myriam vide la mia confusione e mi raccontò la loro storia: come nel 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni tra Israele ed Egitto, Siria e Giordania, fossero fuggiti da Ascalon, ​​vicino alla zona rossa, raggiungendo prima Roma, poi Milano.

Rimasi senza parole. Ne avevo sentito parlare al telegiornale, ma mai da qualcuno che l'avesse vissuto. Stavano ancora aspettando di tornare nella loro amata patria.

Dopo che lei uscì dalla stanza, mi sedetti accanto a Emmanuel. Si era calmato, appoggiato a un cuscino. Gli misi un braccio intorno al collo. Si voltò verso di me, con gli occhi scuri pieni di lacrime e paura, e mi abbracciò forte.

Poi, accadde qualcosa. Le nostre labbra si incontrarono in un bacio delicato. Ero sbalordita. Anche lui sembrò sorpreso e disse che era il loro modo di salutarsi o di mostrare affetto. Mi strinse a sé e mi baciò di nuovo, questa volta più a lungo, tenendomi il viso tra le mani.

Non sapevo cosa dire. Accese la TV come se nulla fosse successo. Lo guardai meravigliata. Per lui era normale. E forse lo era: un modo per esprimere vera amicizia.

Avevo baciato molte ragazze – Bruna, Loredana, Cinzia, Antonella – tutte della stessa via della nonna. Ma quello era diverso. Sentimentale, forse. Averne tre contemporaneamente (lo so, è buffo a otto o nove anni) – una mora, una bionda e una rossa – mi faceva sentire come un latin lover in erba.

Ma quel bacio con Emmanuel mi è rimasto impresso. Era bellissimo, liberatorio e, soprattutto, innocente. Un gesto che, nella cultura ebraica, è normale: un modo per salutare ed esprimere affetto. Uno strano tipo di amore che solo chi non ha malizia può capire.

Nel 1971, la famiglia di Emmanuel tornò a Giaffa, oggi un quartiere di Tel Aviv. Nonna Maria e zio P. mi portarono con loro all'aeroporto di Linate per salutarmi.

Piangevo durante il tragitto. Anche Emmanuel. Nella sala d'attesa, frugò nella sua borsa colorata e mi porse una bambola con i capelli neri e ricci, come lui.

"Ci scriveremo sempre?"

"Sì, sempre, Emmanuel."

"Prometti che verrai a Giaffa?"

"Non lo so, ma partirei con te subito."

"Pensi che ci rivedremo?"

"Sì, giuro di sì."

Sorrise. Una voce annunciò il loro volo per Tel Aviv. Ci furono abbracci, baci, lacrime tra la nonna e Myriam. I suoi fratelli mi fecero voltare tra le braccia. Emmanuel, dopo aver salutato la nonna e lo zio, venne da me.

Senza dire una parola, mi abbracciò e mi baciò sulle labbra.

"Ricordati di me, per sempre, Giampaolo."

"Sì, per sempre."

"Ti scriverò appena torno a casa."

Annuii. Si mossero verso il checkpoint. Pochi minuti dopo, scomparvero nell'area partenze. Iniziai a piangere, un dolore che non riuscivo a sopportare a dieci anni. La nonna mi confortò all'aeroporto e durante il viaggio di ritorno. La mia mente era piena di Emmanuel.

Ci scrivemmo fino al 1973. Poi arrivò la guerra dello Yom Kippur. Dopo, più niente. Speravo che fossero al sicuro. Cercai di trovarli, ma non ricordavo il loro cognome: era troppo difficile. La nonna morì improvvisamente l'anno prima e lo zio P. si ammalò. Perdemmo ogni contatto.

Ora è il 2025. Ricordo quella bellissima amicizia. Cercai su Facebook e altre piattaforme: niente. Solo silenzio.

Tutto ciò che mi rimane sono i ricordi di Myriam e della sua famiglia, e di Emmanuel, il mio compagno d'avventure, di quel bacio fraterno e di quegli occhi neri e profondi. Spero che continuino a vivere negli occhi di qualcun altro, magari dei suoi figli.

E chissà, forse un giorno, come per miracolo, ci incontreremo di nuovo.


Giampaolo Daccò Scaglione

Emmanuel & Giampaolo – A True Story of Friendship

 A true story from my childhood. In the late 1960s, I met Emmanuel, a Jewish boy who became my closest friend. We shared weekends, laughter, dreams, and a bond that went beyond religion, culture, and language. This memory lives in me — especially now, as the world faces new conflicts. I share it hoping someone, somewhere, might remember. And if not, may this story remain a symbol of peace, innocence, and friendship

 “This is a true story. If anyone recognizes Emmanuel or his family, please reach out. I’ve been searching for many years. Memory is peace.”

Emmanuel & Giampaolo – A True Story of Friendship


Emmanuel and Giampaolo

עמנואל וג'יאמפאולו

“Stay still… Okay, now the photo… No, no, Emy, smile! Paolino, get closer to Emy… Ready? There we go.”

“Mama, my name is Emmanuel, not Emy. And Paolino is Giampaolo,” replied my weekend playmate in Milan, where Grandma Maria would take me from her countryside home to visit her fiancé — a gentle man with green eyes I called uncle, whom she met after Grandpa passed away.

Myriam was Emmanuel’s mother. She had the same name as Grandma Maria in Hebrew, and they were about the same age. Myriam had six sons, and Emmanuel was the youngest, born when she was nearly forty. For me, having a grandmother just over forty-five was something to brag about, and her Eastern surname made her seem even closer to Myriam — like a sister and colleague.

Emmanuel became one of my dearest friends. We were like “Ringo” cookies, he’d say — though his skin and curly black hair weren’t that dark. He was convinced Grandma Maria was Jewish like him.

“Look at her surname. Yours is French, hers is Eastern!” he’d say, pronouncing it with a rolling ‘r’ typical of his language. I was fascinated, even though he teased me for my soft ‘r’, which was almost a torment back then, especially at school.

In summer, we spent afternoons at the zoo in Porta Venezia (now thankfully just a park), or at the Idroscalo. In other seasons, even with my parents, we’d go with Emmanuel’s family on trips to lakes and places Uncle P. knew well — five of us in a Bordeaux-colored Fiat 1100, and Emmanuel’s family in a big van.

We were like twins. We shared painting, stargazing, gymnastics, and a mutual dislike for soccer. We played hide-and-seek, ran through fields near the Lambro River, among flowers, wheat, and cherry trees.

At eight or nine, the world was more colorful. We often walked hand in hand through village paths, though the narrow-minded mentality could label us as “different.” In the city, everything felt normal — I wished my parents would move there, but we had another grandmother to care for.

There was no malice in our hearts. In his room or mine, we’d lie side by side reading comics or watching TV, then burst into laughter and roll on the carpet wrestling. Then came butter-and-sugar sandwiches or jam with tea in the afternoon.

Myriam and Grandma Maria were beautiful — dark eyes, olive skin, raven hair, curvy and graceful, with lovely voices.

Adam, Emmanuel’s third brother, often took us to his band’s rehearsals in a basement. They played beat and rock songs — a dream. Emmanuel moved like Jimi Hendrix, mimicking guitar riffs, while I pretended to play drums. We’d exchange glances full of mischief. Forget the Zecchino d’Oro and those kids in matching outfits singing silly songs…

If that wasn’t brotherly love, I don’t know what was. One evening, while the others were at dinner, Emmanuel and I were in his room when a thunderstorm broke out. He screamed at the first thunderclap.

His mother rushed in to comfort him. I didn’t understand his fear — storms were normal to me. Myriam saw my confusion and explained their story: how in 1967, during the Six-Day War between Israel and Egypt, Syria, and Jordan, they had fled Ascalon near the red zone, first reaching Rome, then Milan.

I was speechless. I’d heard about it on the news, but never from someone who lived it. They were still waiting to return to their beloved homeland.

After she left the room, I sat beside Emmanuel. He had calmed down, leaning against a pillow. I put my arm around his neck. He turned to me, his dark eyes full of tears and fear, and hugged me tightly.

Then, something happened. Our lips met in a gentle kiss. I was stunned. He seemed surprised too and said it was how they greeted or showed affection. He pulled me close and kissed me again — this time longer, holding my face.

I didn’t know what to say. He turned on the TV like nothing had happened. I looked at him in wonder. For him, it was normal. And maybe it was — a way to express true friendship.

I’d kissed many girls — Bruna, Loredana, Cinzia, Antonella — all from Grandma’s street. But that was different. Sentimental, maybe. Having three at once (I know, it’s funny at eight or nine) — a brunette, a blonde, and a redhead — made me feel like a baby Latin lover.

But that kiss with Emmanuel stayed with me. It was beautiful, freeing, and above all, innocent. A gesture that, in Jewish culture, is normal — a way to greet and express affection. A strange kind of love that only those without malice can understand.

In 1971, Emmanuel’s family returned to Jaffa, now a district of Tel Aviv. Grandma Maria and Uncle P. took me with them to Linate Airport to say goodbye.

I cried on the way there. So did Emmanuel. In the waiting area, he rummaged through his colorful bag and handed me a little doll with black curly hair — like him.

“Will we write to each other always?”

“Yes, always, Emmanuel.”

“Promise you’ll come to Jaffa?”

“I don’t know, but I’d leave with you right now.”

“Do you think we’ll see each other again?”

“Yes, I swear we will.”

He smiled. A voice announced their flight to Tel Aviv. There were hugs, kisses, tears between Grandma and Myriam. His brothers spun me around in their arms. Emmanuel, after saying goodbye to Grandma and Uncle, came to me.

Without a word, he hugged me and kissed me on the lips.

“Remember me, forever, Giampaolo.”

“Yes, forever.”

“I’ll write as soon as I get home.”

I nodded. They moved toward the checkpoint. Minutes later, they vanished into the departure area. I began to cry — a pain I couldn’t handle at ten years old. Grandma comforted me at the airport and on the way home. My mind was filled with Emmanuel.

We wrote to each other until 1973. Then came the Yom Kippur War. After that, nothing. I hoped they were safe. I tried to find them, but I didn’t remember their surname — it was too difficult. Grandma died suddenly the year before, and Uncle P. became ill. We lost all contact.

Now it’s 2025. I remember that beautiful friendship. I searched on Facebook and other platforms — nothing. Just silence.

All I have left are memories of Myriam and her family, and Emmanuel — my friend of adventures, of that fraternal kiss, and those deep black eyes. I hope they live on in someone else’s eyes, maybe his children’s.

And who knows — maybe one day, like a miracle, we’ll meet again.

Giampaolo Daccò Scaglione

 


 

venerdì 5 settembre 2025

Un sogno tra sole, mare e... Un futuro lontano

Un sogno che diventa realtà non è solo il titolo di questo racconto. È una dichiarazione di intenti, un desiderio che si è fatto carne, onda, sguardo. Giampaolo Daccò ci accompagna in un viaggio che non è solo geografico — è interiore, emotivo, spirituale. Attraverso una scrittura limpida e intensa, ci racconta un incontro che ha il sapore del destino, della cura, della rinascita. Due anime si sfiorano, si riconoscono, si amano — senza bisogno di etichette, definizioni, spiegazioni. E poi si perdono, si ritrovano, si scrivono. Come accade solo nei sogni che non vogliono essere dimenticati.

Questa storia è un invito a credere che anche ciò che sembra impossibile può accadere. Che anche un addio può contenere una promessa. Che anche una lettera consegnata tra la folla può riaccendere la luce di un amore che non ha mai smesso di brillare.

Leggetela con il cuore aperto. Perché è lì che vive davvero.


Un sogno tra sole, mare e... Un futuro lontano

L’incontro

Avevo scelto quel posto meraviglioso per una vacanza indimenticabile, dopo tre anni difficili passati a lottare, pieni di contrasti, cercando di sistemare la mia vita dopo un cambiamento radicale di tutte le mie certezze: il mio lavoro, la mia ex casa, una nuova città, nuove amicizie e tanto altro.

Ne avevo bisogno come quando la gola è arsa dalla sete. Volevo solo mare, spiaggia, cielo azzurro e caldo, poter rilassarmi, dormire e anche divertirmi in ogni senso. Conoscere nuove persone, vivere insomma. E perché no? Lasciarmi andare ad avventure dopo tanta solitudine.

Quel giorno particolarmente bello, dove i colori sembravano più nitidi e mi sentivo come in paradiso, seduto su una sdraio comoda con gli occhi chiusi, sentivo le onde biancastre spumeggiare e infrangersi sulla rena vicino a me, su quella spiaggia dorata. L’ombra delle palme, il vento caldo… sospirai forte per assaporare il profumo salmastro dell’oceano. Non mi ero mai sentito così bene.

Era come se fossi in un Eden fantastico e incredibile. Un pomeriggio tardo, il sole meno caldo e forte per quell’ora, e il cielo si stava già tinteggiando di un arancione leggero, preludio del prossimo tramonto. Era stata una vacanza, in un certo senso, sudata e meritata dopo quel periodo intenso, pesante e difficoltoso.

Ero lì da pochi giorni e ne avrei passati altri venti, tra spiaggia, oceano, escursioni… Incominciavo a sentire l’energia entrare in me. L’hotel era elegante, incastonato in quel posto tropicale magnifico, e pensando all’autunno europeo appena arrivato, mi sentivo un privilegiato. Anche perché, al di là del personale del posto, non conoscevo ancora nessuno.

“È da tanto che stai pensando al paradiso?”

Una voce gradevole e ironicamente simpatica mi aveva scosso da quel tepore rilassante in cui stavo vivendo. Aprendo gli occhi, mi ero trovato di fronte, in piedi davanti alla mia sdraio, una magnifica creatura. Forse stavo dormendo e sognando? Una creatura del profondo oceano era apparsa silenziosa davanti a me?

Mi ero alzato dalla mia posizione e guardai quella figura come fosse un angelo caduto dal cielo: capelli neri, ricci e bagnati che scendevano fin sotto le spalle, occhi scurissimi dalle ciglia lunghe, bocca tumida leggermente imbronciata che incorniciava un sorriso bianco perfetto. Subito il cuore incominciava a battermi forte.

Aveva sorriso davanti al mio stupore. Balbettai qualcosa come:

“Sì… certo… qui è tutto un paradiso…”

“Hai gli occhi color del cielo e i capelli color del grano.”

Incominciavo a pensare di essere quasi preso in giro, era troppo strana la cosa.

“Non ti sto prendendo in giro!” mi aveva detto smettendo di sorridere.

“Che fa, mi legge nel pensiero?” avevo pensato.

“E non leggo nel pensiero…”

In quel momento eravamo scoppiati a ridere. Avevo tolto la fascetta che legava i miei lunghi capelli biondi, che scesero fino sotto le spalle. Avevo solo venticinque anni, sembravo un ragazzino. Ero anche in forma fisicamente grazie allo sport, e mi sentivo davvero soddisfatto da come mi guardava intensamente.

“Sembriamo Yin e Yang, sai di che parlo vero?”

Avevo annuito.

Non so come era accaduto, ma dopo mezz’ora di chiacchiere dove si era parlato di tutto, ci siamo ritrovati a passeggiare lungo la spiaggia che incominciava a tingersi di rosso per il tramonto. Il discorso prese la piega su argomenti esoterici, poi sulle nostre vite, infine sulle bellezze del posto.

Avevamo scoperto che alloggiavamo nello stesso albergo. Inoltre, avevamo in comune molti gusti: pittura, mare, sport, ballo. Ed eravamo italiani entrambi, nonostante l’altra persona sembrasse caraibica. Osservavo la diversità fisica dei nostri colori, tant’è che mi misi a ridere tra me, pensando a dei biscotti famosi per essere uno chiaro e uno scuro incollati da un goccio di crema alla vaniglia.

Più tardi avevamo cenato in un piccolo locale, con indosso solo il costume da bagno coperto da un pareo. I nostri occhi si fissavano spesso, ma io mi sentivo arrossire. Non so perché, ma non mi era mai capitata una cosa del genere.

“Hai degli occhi blu molto intensi, ma credo che cambino colore in base alla luce, vero?”

Avevo annuito, mentre osservavo i suoi occhi neri e profondi come la pece, indecifrabili. Avevamo ascoltato musica in un locale, un genere francese anni Cinquanta — musica che amavo e amo tanto. Poi, prima di mezzanotte, quando in quella cittadina tutti si stavano divertendo con musica e balli, eravamo rientrati nel nostro hotel.

Era molto tardi, la notte era inoltrata e la luce della luna filtrava tra le finestre della sua camera. Guardavo quella creatura completamente nuda abbracciata a me. Le ombre disegnavano sul corpo curve e onde scure e sensuali. Era stata una notte piena di passione. Pensavo che sarebbe durata solo una volta. I suoi capelli neri lungo le spalle sembravano blu nella penombra e contrastavano con i miei. Ancora mi venne in mente il simbolo dello Yin e Yang.

Muovendosi, aveva aperto gli occhi su di me e subito un leggero bacio aveva colpito la mia bocca. Avevo anche notato in quell’istante una cosa che non avevo visto prima: il tatuaggio Yin e Yang sulla sua spalla sinistra. Sorrise mentre con un dito mi sfiorava le labbra.

“Non ci siamo incontrati per caso.” aveva detto all’improvviso, notando i miei occhi fissi sul tatuaggio. “Era destino, me lo sentivo quando ti avevo visto entrare nella hall la prima volta con la valigia blu e lo zaino in spalla. Sembravi un angelo con i capelli lunghi e lo sguardo un po’ perso, come un ragazzino del liceo.”

“Grazie…” avevo risposto così.

“E per cosa? Passeremo le vacanze insieme se ti… Ma sì che ti va, lo sai. Fino al giorno della partenza per le nostre città saremo insieme. Non possiamo farne a meno.”

Così era stato. Che giorni e notti meravigliose. Un sogno diventato realtà. Quello che desideravo da quando avevo prenotato il viaggio nei giorni precedenti alla partenza, sull’aereo che mi portava lì. Un premio che pensavo di meritare. Avevo scoperto che eravamo anche sul volo di ritorno insieme. Che meraviglia, fino all’ultimo. E se lo sapeva già dal principio?

Il ritorno e il destino

Milano Malpensa, venti giorni dopo. Venti giorni che non scorderò mai, per la felicità, per la bellezza e per le cose insieme fatte. Sentivo ancora dentro il profumo del mare, dei nostri corpi, dell’atmosfera vissuta in quell’angolo di paradiso. Passata la dogana, ci eravamo fermati in un bar per mangiare qualcosa. Non sapevo se chiedere il suo numero di telefono.

“Senti…” mi aveva detto all’improvviso, “Non scambiamoci niente, te l’ho letto negli occhi. Né telefono, né indirizzo, nulla. So che abiti a Milano e io a Roma… Se il destino vorrà, ci rincontreremo. Meglio così.”

Avevo risposto con un cenno della testa. Sembrava un gioco magico e crudele. In quel momento mi sentivo preso in giro, ma già in vacanza non avevamo parlato se ognuno di noi avesse una persona al fianco. Non avevamo sentito il bisogno di dircelo. Un bacio e un abbraccio durato un’eternità avevano suggellato il nostro addio, mentre sentivo le lacrime salire agli occhi. Ero stato troppo bene. Troppo felice.

Mi ritrovai a casa dopo due ore, pensando a quell’avventura stupenda e ai suoi occhi così penetranti. Ma chi era, infine? Avevamo parlato di tutto, ma di nessun progetto e futuro incontro. Era stata un’avventura magica. Avevo realizzato poi che mi aveva riempito il cuore da un vuoto che durava da anni. Forse mi era stato mandato un angelo per avere un po’ di felicità?

Erano passati circa una quindicina d’anni, o poco più. Per lavoro, mi ero ritrovato a un convegno internazionale molto importante nella città eterna. Un luogo fantastico, come ce ne sono tanti a Roma. Centinaia di persone da tutto il mondo, e una noia mortale nel partecipare a tre conferenze che non finivano mai. Pochi parlavano inglese, e con le cuffie del traduttore si dovevano sorbire, in lingue diverse e incomprensibili, lunghi e spesso inutili discorsi.

Poi finalmente, finite le conferenze, il penultimo giorno era dedicato alle visite della città. Avevo scelto di andare con una comitiva di lombardi e svizzeri per un’escursione in Vaticano, per visitare gli stupendi musei. E mentre stavamo passeggiando tra quelle meraviglie, tra quadri e statue, all’improvviso avevo avuto un abbaglio. Non credevo ai miei occhi: poco distante, davanti a me, c’era la meravigliosa creatura di quella vacanza lontana.

Avevo riconosciuto subito gli occhi, la bocca. I capelli erano più corti, non era cambiato molto — solo la sua figura leggermente appesantita, ma ancora affascinante. Da perfetto idiota, mi ero nascosto dietro a una colonna dove erano appoggiate due persone, per non farmi vedere. Semmai mi avesse riconosciuto.

Non so perché lo avevo fatto, ma mi sentivo in imbarazzo. Non ero più solo sentimentalmente, e forse rivedendoci sarei rimasto imbambolato e non avrei saputo dire qualcosa, oppure comportarmi normalmente. Quando poi la sua figura era svanita tra la folla che usciva verso i giardini, mi ero spostato dalla colonna e raggiunsi il mio gruppo, vedendo lo sguardo stupito e interrogativo apparso sul volto della persona con cui mi ero sposato da poco. Come a dire: “Ma dov’eri finito?”

Dieci minuti dopo, mentre eravamo vicino all’uscita dei giardini, un signore con la divisa da guida si era avvicinato chiamandomi gentilmente.

“Signor Daccò? Giampaolo Daccò?”

“Sì, sono io.” avevo detto, stupito.

“Le devo consegnare questa busta da parte di una persona che mi ha fermato poco fa. Mi ha detto che non era riuscito a parlarle per le molte persone che impedivano di avvicinarsi. Mi scusi, ecco a lei.”

Presi la busta e lo ringraziai. Intanto mi ero guardato intorno per vedere se c’era. Era impossibile: troppa era la folla. Avevo le mani tremanti. Sapevo che quel messaggio era suo. Appena rimasto solo, l’avevo aperta. Le parole scritte in quel foglio, leggendole, mi bruciavano come il fuoco sulla pelle e nel cuore:

“Angelo biondo, ti ho finalmente rivisto dopo tutti questi anni. Ti osservavo da lontano mentre non ti eri accorto di me. Anche solo per pochi secondi, nel mio tempo disponibile, mi fermavo a guardarti. Avevo capito che non eri da solo in quel momento, così ho evitato di avvicinarmi. Volevo dirti che non ti ho mai dimenticato. Sei, e lo sarai per sempre, il mio angelo biondo. Il ragazzo indimenticabile che in quei giorni lontani mi aveva salvato da un dolore forte, dalla perdita dei miei per un incidente aereo. Ero in vacanza per dimenticare, ed eri arrivato tu. Non te lo avevo mai detto: mi hai salvato con il tuo cuore. Sono sicuro che ci rivedremo ancora, anche se non so quando. È destino, Jang. Sono sicuro che il mare sarà il luogo esatto, ma non so quanto tempo passerà. Per sempre, Ying.”

Avevo sorriso, mettendomi in tasca la busta, mentre un’emozione forte saliva dallo stomaco. Mi ero accorto che stavo piangendo. Mi ripresi subito, anche perché mi stavano chiamando per salire sul pulmino che ci portava a pranzo in hotel.

Mi sono sempre chiesto, e ancora oggi mi chiedo, se quel sogno fosse stato vero, nonostante tutto. Eppure, una busta messa nella scatola dei miei ricordi più belli lo conferma: quell’avventura e quel sogno erano stati reali.

Giampaolo.

Il tempo che abbraccia

Ci sono momenti che non appartengono a un solo tempo. Sono sospesi, come gocce di luce tra due epoche che si guardano da lontano. Io ero giovane, danzante, con il sale sulla pelle e il cuore aperto come il cielo. Lui era lì, come una risposta che non avevo ancora formulato. E poi, anni dopo, ero diverso — ma non meno vero. E lui, ancora lì, come una domanda che non aveva mai smesso di cercarmi.

Due tempi. Due versioni di noi. Due sguardi che si sono incrociati nel paradiso e poi tra la folla. Diversi, sì. Ma uguali nel battito che ci ha uniti.

Non so se il sogno era realtà, o se la realtà era sogno. Ma so che esiste un luogo — forse il mare, forse una lettera, forse solo il mio cuore — dove tutto è accaduto. E dove tutto continua ad accadere.

Perché ci sono incontri che non finiscono. Ci sono addii che non separano. Ci sono amori che non chiedono nulla — solo di essere ricordati.

E io ricordo. Ogni istante. Ogni parola. Ogni silenzio.

Giampaolo Daccò

 


 

martedì 2 settembre 2025

Le strade che non sai


Le strade che non sai

A chi ha camminato accanto a me senza chiedere dove stessimo andando. A chi ha acceso un falò nel cuore quando il cielo sembrava spento. A chi non ha avuto paura di perdersi, pur di trovarsi davvero. Queste pagine sono per voi. Per noi. Per le strade che non sappiamo, ma che ci portano sempre più vicino.

(da sinistra Bruno, Bjorn, Erik, Giampaolo)

Spiaggia del Mare del Nord

Mi sono seduto su un tronco, mentre il vento mi spettinava i pensieri. Erik, Bjorn e Bruno camminavano poco lontano, e sembravano parte del paesaggio — come se il mare li avesse disegnati lì per me. Avevo Take the Long Way Home in testa, e per la prima volta ho capito che non era solo una canzone. Era una direzione. E loro… erano casa.

Mi sono innamorato. Non di uno solo, ma di tutti. Di quello che siamo insieme. Di come mi guardano, di come mi ascoltano, di come mi fanno sentire. Forse non tornerò mai più lo stesso. Ma va bene così. Perché oggi, su questa spiaggia fredda, ho trovato qualcosa che non sapevo di cercare.


Milano – La partenza

Bruno chiuse la porta del camper con un colpo secco. Il rumore rimbalzò tra i palazzi silenziosi di Milano, ancora addormentati in quella mattina di marzo. Aveva lasciato un biglietto sul tavolo di casa, niente di drammatico: “Vado a cercare qualcosa che non so. Non aspettarmi.”

Aveva trent’anni, una barba che non curava più da settimane, e negli occhi il riflesso di una storia finita con Andrea. Non c’erano più parole da dire, solo chilometri da macinare. Il camper, vecchio ma fedele, sembrava capirlo. Il motore tossì, poi si mise in moto. Direzione: nessuna. O forse Monaco, solo perché era abbastanza lontana da sembrare un nuovo inizio.

Monaco – L’incontro

Il pub era caldo, affollato, odorava di birra e spezie. Bruno sedeva da solo, mangiando lentamente una zuppa che non sapeva di nulla. Fu allora che vide Erik, il barista, litigare con il proprietario: un uomo grosso, arrogante, che lo strattonava davanti a tutti.

Bruno non ci pensò: si alzò, intervenne. Le cose precipitarono. Altri uomini entrarono, minacciosi. Bruno e Erik fuggirono tra le strade umide di Monaco, ridendo per la paura e per l’assurdità della fuga.

Erik aveva ventisei anni, occhi chiari e un accento che non si capiva bene da dove venisse. “Grazie,” disse. “Non so perché l’hai fatto, ma ora siamo in due. Ti va di non avere una meta insieme?”

Berlino – L’incrocio

Il camper si fermò davanti a un piccolo hotel. Pioveva leggermente, quella pioggia sottile che non bagna ma entra nelle ossa. Fu lì che ti vedemmo, Giampaolo.

Avevi ventuno anni, uno zaino troppo grande per la tua schiena, e stavi attraversando la strada quando un ladro ti strappò la borsa. Cadesti. Bruno corse verso di te, Erik inseguì il ladro. Un poliziotto si unì alla corsa. Alla fine, la borsa tornò nelle tue mani. E tu, nei nostri cuori.

 Verso Stoccolma

Nel camper, tra una canzone dei Supertramp e l’altra, Erik ci raccontò di Bjorn. Il suo compagno, ventitré anni, era ricoverato a Stoccolma in attesa di un trapianto di cuore. Erik lavorava in Germania per pagare l’operazione. Bruno ascoltava in silenzio. Non disse nulla, ma quando arrivammo in Svezia si mise in contatto con il suo vecchio ospedale. Era un medico. Lo scoprimmo solo allora.

Bjorn era pallido, ma sorrideva. Dopo settimane, un donatore fu trovato. Bruno aveva pagato tutto, senza dirlo. Solo Erik lo capì, e lo abbracciò.

La spiaggia danese

Bjorn stava meglio. Decidemmo di andare in Danimarca, su una spiaggia che sembrava uscita da un sogno. Erik e Bjorn sedevano davanti al falò, le mani intrecciate, gli occhi pieni di futuro. Tu e Bruno pescavate. Rubasti le esche, lui ti rincorse, e crollaste sulla sabbia ridendo.

Da lì, le storie si divisero: due coppie, due strade, un’unica colonna sonora.

Il falò

La spiaggia danese era silenziosa. Il mare respirava piano, e il cielo — tra il grigio e il ceruleo — sembrava ascoltare. Bjorn e Erik erano seduti vicini, le mani intrecciate, gli occhi rivolti alle fiamme. Bruno sistemava le ultime pietre attorno al fuoco, poi si sedette accanto a me.

Guardavo i tre, uno alla volta. Sentivo la musica nella testa — Take the Long Way Home — e qualcosa dentro di me si scioglieva. Il vento mi spettinava i pensieri, ma non li portava via. Li teneva lì, come se volesse che li dicessi.

Mi schiarii la voce. “Posso dirvi una cosa?” Si girarono tutti verso di me, senza fretta.

“Credo che… per la prima volta… mi sia innamorato davvero.” Silenzio. Ma non era imbarazzo. Era rispetto. Era ascolto.

“Non di uno solo,” continuai. “Ma di voi. Di questo. Di noi quattro. Di quello che siamo diventati. Di come mi fate sentire. Di come mi avete cambiato.”

Bjorn sorrise. Erik gli strinse la mano. Bruno mi guardò con quegli occhi verdi che non avevano bisogno di parole. Il fuoco crepitava. Il mare continuava a respirare. E io, seduto su quel tronco, capii che non serviva altro.

Take the Long Way Home suonava nel camper, mentre il sole tramontava lento sull’acqua.

Milano – Il ritorno

Il camper rallentò all’ingresso della città. Milano sembrava diversa, eppure era sempre la stessa: palazzi grigi, tram che sferragliavano, gente che correva anche se non pioveva. Bruno guidava in silenzio, lo sguardo fisso sulla strada. Io, seduto accanto, avevo lo zaino sulle ginocchia e un nodo in gola. Otto mesi di viaggio, e ora tornavamo. Ma chi eravamo, dopo tutto questo?

Parcheggiammo davanti alla casa di Bruno, quella dove Andrea aveva vissuto, dove le pareti avevano ascoltato litigi e silenzi. Entrammo piano, come se la casa potesse svegliarsi di colpo. Era tutto come prima, ma con la polvere del tempo.

Bruno aprì le finestre. Io mi sedetti sul divano. “Puoi restare qui finché vuoi,” disse. “Non è più casa mia. È casa nostra, se ti va.”

Nei giorni seguenti, Milano ci inghiottì piano. Io iniziai a cercare lavoro, portando il mio diploma d’arte come una bandiera fragile. Bruno tornò in ospedale, accolto con abbracci e domande. La sera, cucinavamo insieme. A volte parlavamo, a volte no. Ma c’era una musica che non mancava mai: Take the Long Way Home, che suonava mentre il sole calava dietro i tetti.

La lettera e la promessa

Fu una sera di ottobre. Milano era immersa in quella pioggia sottile che non fa rumore, ma che si sente dentro. Stavo dipingendo nel soggiorno, una tela ancora bianca davanti, ma con mille colori nella testa. Bruno era in cucina, preparava del tè alla menta — il suo preferito da quando eravamo stati in Bretagna.

La casa era silenziosa, tranne per il ticchettio della pioggia e la musica bassa che veniva dal vecchio stereo. Take the Long Way Home suonava ancora, come un rituale che non volevamo spezzare.

Bruno entrò con una busta in mano. “È arrivata una lettera,” disse, asciugandosi le mani sul grembiule. Si sedette accanto a me, aprì piano la busta, come si apre un ricordo.

La voce di Erik e Bjorn ci arrivò attraverso le parole scritte — calde, sincere, piene di gratitudine e nostalgia.

Leggemmo in silenzio. Ogni frase era un frammento di quel viaggio, ogni parola un richiamo.

Quando Bruno finì, rimase in silenzio per un momento. Poi mi guardò. “Che giorno era quando partii da Milano?” “Il 12 marzo,” risposi. Lui sorrise. “Allora il 12 marzo prossimo… partiamo di nuovo. Solo per una vacanza. Solo per rivederli. Solo per ricordarci chi siamo.”

Io annuii. La tela davanti a me non era più bianca. Avevo già iniziato a dipingere: un camper, una spiaggia danese, quattro sagome davanti a un falò. E sopra, un cielo pieno di stelle e di musica.

Lettera da Stoccolma

Mittenti: Erik & Bjorn Destinatari: Bruno & Giampaolo Data: 12 ottobre

Cari Bruno e Giampaolo,

Ci siamo svegliati stamattina con il cielo grigio che solo Stoccolma sa regalare, e con il desiderio di scrivervi. Bjorn sta meglio. Cammina ogni giorno un po’ di più, e ieri ha cucinato per la prima volta da mesi. Ha fatto delle polpette svedesi che sapevano di casa, anche se la cucina sembrava esplosa.

Parliamo spesso di voi. Del camper, della spiaggia danese, del falò. Della corsa sulla sabbia, delle esche rubate, delle risate che ci hanno fatto dimenticare per un attimo la paura. Bruno, non abbiamo mai trovato le parole giuste per ringraziarti. Tu hai fatto più di quanto chiunque avrebbe fatto. Hai salvato Bjorn, ma anche me. Giampaolo, tu hai portato leggerezza, arte, quella voglia di vivere che ci ha contagiati. Sei stato il colore in un periodo in bianco e nero.

Abbiamo deciso di restare qui per un po’. Bjorn vuole studiare fotografia, io sto cercando lavoro in una libreria. Ma un giorno, torneremo a viaggiare. E magari ci ritroveremo, chissà, in Bretagna, in Olanda, o semplicemente a Milano, davanti a un caffè.

Vi mandiamo una foto scattata ieri: siamo sul balcone, con le coperte sulle gambe e Take the Long Way Home in sottofondo. Sì, la ascoltiamo ancora. Sempre.

Con affetto infinito, Erik & Bjorn


La strada che non sai – Canzone

 

Verso nord, con il cuore in tasca

Bruno guida e non guarda indietro

Erik ride, ma ha gli occhi stanchi

Io sogno Berlino sotto un cielo tetro

Un ladro, una corsa, una borsa persa

Un incontro che cambia il cammino

Bjorn ci aspetta, fragile e vero

In un letto d’ospedale, vicino al destino

 

RITORNELLO:

Prendi la strada che non sai

Dove il vento ti parla piano

Tra le piogge della Danimarca

E le mani strette al mattino

Prendi la strada che non sai

Che non ha fretta di arrivare

È lì che trovi chi sei

 

Tra chi non sapevi di amare

Falò acceso, sabbia tra i denti

Io rubo le esche, Bruno mi rincorre

Erik e Bjorn, seduti e silenti

Con gli occhi che brillano più delle stelle

Un camper, quattro anime in viaggio

Una canzone che non smette mai

Supertramp alla radio, finestrini abbassati

E il mondo che gira, ma non ci fa male

 

(RITORNELLO) PONTE:

E se un giorno torneremo

A quei luoghi che ci hanno cambiato

Sarà per dire grazie

A chi ci ha salvato, anche senza saperlo

(RITORNELLO FINALE)

Prendi la strada che non sai

Che ti porta lontano da tutto

Ma vicino a chi conta davvero

Nel silenzio, nel tempo, nel lutto

Prendi la strada che non sai

E non tornare mai uguale

Perché ogni curva, ogni volto

È un pezzo di te che vale

 

E se un giorno torneremo… sarà per ricordarci chi siamo. E per continuare a camminare, lungo le strade che non sappiamo.

 Epilogo – Agosto 2025, Spiaggia del Mare del Nord

Il vento è lo stesso. Forse un po’ più stanco, forse più saggio. Ma spettina ancora i pensieri, come allora. Cammino sulla sabbia con passo lento, lo zaino sulle spalle, una vecchia foto in tasca. Quella con noi quattro, davanti al falò. Il cielo è grigio-ceruleo, come quel giorno. Il mare respira piano.

Mi siedo su un tronco, lo stesso — o forse uno simile. Accendo un piccolo altoparlante. Take the Long Way Home parte piano, come un ricordo che non ha fretta. Chiudo gli occhi. E li vedo.

Bruno, con la barba più bianca ma lo sguardo ancora verde. Erik e Bjorn, mano nella mano, con le rughe che raccontano solo sorrisi. E io, che non sono invecchiato davvero. Ho solo aggiunto luce.

Nessuno parla. Non serve. Il falò non c’è, ma il calore sì. E il tempo, per una volta, si siede accanto a noi.

Giampaolo.

Nota dell’autore

Questo racconto è nato da un ricordo, ma ha preso forma come un viaggio. Non è una cronaca, non è una confessione. È una mappa emotiva, tracciata con immagini, silenzi, e una canzone che non smette mai.

Ogni personaggio è reale, anche se non sempre riconoscibile. Ogni luogo è vero, anche se a volte inventato. Le emozioni, invece, non hanno bisogno di conferme: sono quelle che ci cambiano, che ci tengono svegli, che ci fanno partire.

Le strade che non sai non è solo un titolo. È una promessa. Che ogni curva, ogni volto, ogni incontro — anche il più breve — possa diventare un pezzo di te che vale.

Grazie per aver camminato con me.

Giampaolo



 





lunedì 1 settembre 2025

Il fratello che non avevo

“Ci sono abbracci che non si dimenticano. E lettere che arrivano quando il cuore è pronto.”

Questa è una storia vera. Una storia di amicizia, di viaggi, di lettere mai dimenticate. Tra Grecia e Parigi, tra tramonti e terrazze, tra abbracci e silenzi, ho vissuto momenti che mi hanno cambiato. Non è solo il racconto di un tempo passato, ma il ritratto di ciò che resta quando le persone se ne vanno: la memoria, la gratitudine, e l’amore fraterno. A chi ha avuto un amico così, dedico queste pagine.



“Parigi ci ha visti così. Due ragazzi, un ponte, un tramonto. E un’amicizia che non ha mai chiesto spiegazioni.”

Il fratello che non avevo

Grecia, giugno 1982.

Qualche ora prima, l’aereo che mi aveva portato ad Atene era già un ricordo lontano. Ora sedevo in disparte sul traghetto, con la mia valigia e una sacca ai piedi, osservando le isole che si profilavano all’orizzonte. L’isola che mi aspettava sarebbe apparsa di lì a poco, e infatti, dopo pochi minuti, si intravedevano le prime rocce delle alture.

La luce accecante del sole, nonostante gli occhiali scuri, mi impediva di vedere più di qualche macchia verdastra su quelle rocce chiare. Ma man mano che ci avvicinavamo al porto, le macchie si facevano nitide: cespugli mediterranei, fiori gialli e rossi, piccoli ulivi, case bianche con porte e finestre colorate.

Il traghetto virò a destra e si avvicinò al porto. Non c’erano più solo macchie bianche e verdi, ma tanta gente, tante case, tanti fiori selvatici. Dopo l’attracco, ci mettemmo in fila per scendere. Intorno a me, voci, bambini che gridavano, valigie che spingevano.

Finalmente arrivai in una piazzetta dalle mattonelle bianche con disegni strani. Dopo una lunga sosta sotto il sole, salii su un taxi vecchiotto guidato da un uomo coi baffi e un sorriso smagliante. Conosceva l’italiano, e fu facile spiegargli dove si trovava il mio alloggio: una parte di un’abitazione familiare affittata ai turisti.

La strada era in salita, non lontana da una chiesetta circondata da case in stile mediterraneo. Poi, con sorpresa, la strada riscendeva verso il mare in leggere curve. Arrivai davanti a quella struttura semplice ma meravigliosa: bianca, con un portone coperto di bougainvillea e persiane celesti. Una terrazza piatta faceva da tetto.

Pagato il taxi, una signora gentilissima mi venne incontro. Parlava un italiano un po’ strano, ma mi accompagnò in casa, dove conobbi il marito e uno dei tre figli. Dopo le presentazioni e le formalità, attraversammo un cortile pieno di bougainvillea rosse, piante di cedro e rampicanti dai fiori bianchi. L’altro lato della casa mostrava due piani, con una scala esterna dipinta di bianco e azzurro.

La signora mi disse che sotto c’erano quattro ragazze inglesi, al primo piano un signore turco che scriveva racconti, uno studente tedesco… e accanto alla mia camera, un ragazzo francese di nome Louis.

Entrai nella mia stanza: un piccolo soggiorno con tavolo, sedie, buffet, letto matrimoniale con lenzuola bianche, comodino, armadio. Il bagno era comune, ma pulito e decorato in stile greco. Tutto sembrava perfetto, tranne me.

La signora si sincerò che fosse tutto di mio gradimento, poi uscì con un sorriso dolce. Aprii la grande finestra: davanti a me, il mare. Il sole era alle spalle, quasi al tramonto. Le luci del paese si accendevano, e una brezza lieve portava frescura a quella lunga giornata.

Decisi di farmi una doccia. Entrai nel bagno convinto fosse vuoto… e mi trovai davanti Louis, completamente nudo, che cantava insaponandosi. Spaventati entrambi, lui scivolò nella tazza, io feci cadere l’attaccapanni. Scoppiammo in una risata fragorosa. Non sapevo più come scusarmi.

Due ore dopo, cenammo insieme in un piccolo ristorante vicino alla casa. Avevo deciso di stare solo, ma quella sera cambiai idea. Con Louis ci intendemmo subito. Il giorno dopo ci ritrovammo per caso in spiaggia, vicino a una caletta. Parlammo di cose leggere, poi ognuno raccontò la propria storia. E fu lì che scoprimmo che erano uguali.

Due ventenni, di città diverse, fisicamente simili, stesse scuole, una sorella ciascuno, genitori in crisi, passione per l’astronomia, e una storia d’amore dolorosa alle spalle.

Pensavo di fare una vacanza bohémienne, per distruggere il cuore ferito. Ma invece… fu una vacanza strepitosa. Balli, escursioni, bagni, risate. Milano sembrava lontanissima. Louis ed io parlavamo di tutto, tranne delle nostre storie private.

Una sera, la penultima, eravamo sul terrazzo. Le luci brillavano, le barche sembravano lucciole. Louis iniziò a raccontare la sua storia. La voce si incrinava. Era la mia storia, con altri nomi. Quando finì, mi guardò. Raccontai la mia. Piangevo in silenzio.

Un aereo passò sopra di noi. Louis mi abbracciò. Un pianto liberatorio. Alle nostre spalle, una voce maschile: il proprietario della casa. Disse solo: “A quanto pare, una bella serata per tutti.” Ci sorrise, ci raccontò la sua storia. Diversa, ma simile. Ci accompagnò nelle nostre camere. Quella sua storia ci aiutò a capire, a sopportare, a guardare lontano. Che uomo, Nesios.

Due giorni dopo, Louis ed io eravamo in aeroporto. Ci scambiammo indirizzi e numeri. “Ci rivedremo?” “Sì, lo giuro.” Mi diede una bambola con capelli neri, come lui. “Ricordami, per sempre.” “Sì, per sempre.”

L’aereo partì. Piangevo. Non sapevo se per la fine della vacanza, per l’amico che lasciavo, o per tutto ciò che avevo vissuto. Guardai fuori dal finestrino: l’isola si allontanava, la casa bianca dalle persiane azzurre diventava un punto nel blu. Dentro di me, sapevo che qualcosa era cambiato. Avevo trovato il fratello che non avevo.

Parigi: La città che accoglie

Passeggiate sotto la pioggia, croissants e cioccolata, e un ritratto misterioso che somiglia troppo. Parigi diventa il teatro di nuove emozioni e vecchi destini.

Parigi, molti anni fa.

La pioggerellina scendeva lenta sui tetti e nei viali. Le bancarelle di fiori e libri sul Boulevard dell’Île Saint-Louis erano quasi deserte. Mi fermai davanti a una boulangerie: avevo fame. Una voce alle spalle mi fece voltare.

Bonjour, je suis désolé pour le retard, Jeanpaul.Pas de problème, Louis. Je suis ici depuis quelques minutes.

Il mio amico parigino non sapeva più come scusarsi. Allora, visto il ritardo, lo “obbligai” a offrirmi la colazione. Ridendo, entrammo in un bar-pasticceria e ci sedemmo vicino a una finestra sulla strada. Davanti a due tazze di latte e caffè, croissants, pain et beurre et confiture, facemmo una colazione da re.

Ero ospite da lui per una breve vacanza. Quel mattino avevamo deciso di visitare il Louvre. Alle nove e trenta ci raggiunsero tre coppie di suoi amici: una sposata, una fidanzata da una vita, e una coppia di ragazze gay. Martine, Lorraine, Didier, Jiulienne, Jean-Marc e Francine.

Mentre la pioggia cadeva ancora lenta, visitammo una parte del museo, pranzammo in una brasserie, e poi una lunga passeggiata a Montparnasse. Louis mi raccontava della sua storia un po’ incasinata. Guardavo le tre coppie sotto gli ombrelli colorati e le invidiavo un po’. Ogni tanto, la risata cristallina di Martine risuonava alle battute della sua compagna Lorraine.

Che atmosfera stupenda di fine estate. Poi, la brillante idea di prenderci una cioccolata. Louis ci portò in una pasticceria nei pressi del Boulevard de Clichy, e decise di offrire lui, questa volta.

All’interno, le note di una canzone di Yves Montand provenivano da una radio nascosta dietro al bancone. Una ragazza dagli occhi blu e capelli neri sorrideva dalla cassa dove andai a ordinare. Mi sorrise, e alla fine, dopo aver pagato, disse:

Monsieur, êtes-vous italien?Il savait de mon accent? — le risposi. — Non seulement cela, mais son visage en dit. Bienvenue à Paris alors.Merci, elle est très gentille, mademoiselle...?Claudine. Je m'appelle Claudine. — sorrise alla grande. — Giampaolo, plaisir. — dissi, un po’ imbarazzato.

Lei continuava a guardarmi mentre ero al tavolo con i miei amici. Mi girai verso la strada: la pioggia continuava a cadere. Un’altra coppia sotto l’ombrello correva sul marciapiede per raggiungere un portone.

All’orecchio giunse una musica bellissima: Les feuilles mortes. Voltai lo sguardo verso Claudine e ricambiai il sorriso. “Benvenuto a Parigi”, mi dissi da solo. Louis mi guardò con aria interrogativa. Presi un pasticcino al cioccolato e me lo gustai tranquillo, mentre la pioggia continuava a cedere davanti a noi.

Place des Vosges e il ritratto

Quel giorno avevamo deciso di visitare la zona della Bastille. Dopo una lunga camminata tra Place de la Bastille e il canale de l’Arsenal, ci fermammo in un bistrot sulla Senna, davanti all’Île Saint-Louis. Mentre mangiavamo qualcosa, ci accorgemmo che un signore anziano, vestito con un soprabito verde e un basco beige, continuava a fissarmi.

Louis si stava seccando — odiava le persone che fissavano senza motivo. Stavamo per andarcene, quando l’uomo si avvicinò.

Perdonatemi la maleducazione, ma vorrei fare una domanda al ragazzo biondo. Se posso…Spero non sia una seccatura, — rispose Louis, visibilmente infastidito. — No, no… volevo solo chiedere se fosse tedesco.

No, sono italiano, — risposi nel mio francese stentato. — Che strano… avrei giurato che lo fosse. Ma vorrei spiegarmi meglio. Se volete seguirmi, vi farò perdere solo qualche minuto. Parola di Didier Rainer. Mi piace dipingere, e volevo mostrarvi una cosa.

Non so perché, ma lo seguimmo. L’uomo era discreto, gentile, senza secondi fini. Ci raccontò di un amico tedesco conosciuto durante la guerra, un dissidente che odiava Hitler e che trovò rifugio in Francia. Lo aveva nascosto con la sua famiglia, poi lo perse di vista: partì per gli Stati Uniti con un passaporto falso.

Camminammo tra Rue Saint-Paul, Rue de Saint-Antoine, e infine nella piccola Rue de Birague, fino a sbucare nella Place des Vosges. Non l’avevo mai vista. Rimasi incantato. L’architettura sublime, i portici, i giardini… un tuffo al cuore. Louis rise vedendo la mia espressione.

La stessa faccia che fece Erik quando vide questa meraviglia, — disse Didier. — Aspettatemi qui. Cinque minuti. Vi devo mostrare una cosa.

Sparì in un portone. Louis fumava una sigaretta, io vagavo tra i giardini. Poi mi chiamò. Mi avvicinai. Didier era sotto il portico, con un quadro coperto da un telo.

Lo scoprì. La sigaretta di Louis cadde dalle sue labbra.

Merde… pardon. Mon Dieu. Non è possibile. Paolo, guarda!

Mi avvicinai. Impallidii. Quel volto… sembrava il mio. Aveva solo il naso leggermente diverso, ma ero io. Didier mi guardò negli occhi.

Capisce perché ho sentito il desiderio di fermarmi?

Mi fece una foto nella stessa posizione del ritratto. Ma quella foto non la vidi mai. Non tornammo più da quelle parti nei giorni successivi. Chissà se Didier ritrovò mai il suo amico. Chissà se quel ritratto era davvero un segno. Chissà se il destino… ci osserva da un angolo della piazza.

L’addio: Cinque giorni di felicità

Un tramonto sulla Senna, un abbraccio che parla più delle parole, e la consapevolezza che l’amicizia vera non ha bisogno di spiegazioni. Ma sente ogni distanza.

Tramonto rosso fuoco. La Tour Eiffel si stagliava tra il rosso del sole e il rosato e oro del cielo. Venere brillava poco più in alto. Louis ed io eravamo appoggiati con le braccia sul Pont du Carrousel. Alla nostra sinistra, due signori anziani osservavano un battello scivolare sotto di noi sulla Senna. Alla destra, il Louvre, imbrunito dalle ombre della sera, sembrava quasi un’ombra minacciosa.

Era uno dei miei ultimi giorni di vacanza a Parigi, a casa di Louis. I nostri volti erano rivolti verso quella torre così alta e scura, i pensieri persi chissà dove. Improvvisamente sentii il suo sguardo su di me. Quando voltai il viso, i suoi occhi sembravano lucidi.

— Che c’è? — chiesi, girandomi con la schiena appoggiata al ponte. — Nulla… nulla… — rispose con voce triste. Poi mi abbracciò forte.

Mi preoccupai. Pensavo non stesse bene. Si staccò, chiedendomi scusa per il gesto, temendo fosse frainteso.

— Frainteso? — pensai. Era solo un abbraccio, quello di un amico in difficoltà. Avevamo dormito nello stesso letto, condiviso giorni e notti. C’era pura amicizia tra noi. Una di quelle vere, rare, che appagano il cuore e la mente.

— Mi dispiace che tu te ne vada… che ritorni in Italia tra pochi giorni. — Tra cinque giorni, Louis… — sdrammatizzai, abbozzando un sorriso.

Mi prese per un braccio e mi condusse in silenzio verso Rue des Saints-Pères. Quasi correndo, ci ritrovammo in Boulevard Saint-Germain.

— Preferisco stare in mezzo alla gente, non soli su quel ponte a guardare quel tramonto, la Senna, e tu pensieroso. Tutto questo mi aveva messo addosso una tristezza… Almeno qui, in mezzo alla gente, mi sento meglio.

— Louis, davvero non capisco. Non è la prima volta che vengo a Parigi, che ci vediamo… Mi hai promesso di venire a Milano ad aprile del prossimo anno. Non dovresti essere triste.

— Ma questa volta è diverso.

Si sedette a un tavolino di un bar. Mi sedetti anch’io.

— Come sarebbe a dire: questa volta è diverso?

Il suo sguardo era oltre il mio.

— Partiamo per il Canada, con i miei. Partiremo tra due mesi. L’ho saputo stamattina da papà. Ci trasferiamo lì per tre anni. Ha avuto un incarico di lavoro per la sua società…

Mi venne un colpo. Tre anni lontani. Un aprile senza la sua visita. Un vuoto che si apriva.

— Beh, c’è il telefono. Ci potremmo scrivere… — Sì, ma non è la stessa cosa, Jean… — mi chiamava così quando era triste. — Lo sai che sei un fratello per me. Un fratello che non ho mai avuto. Sei molto di più degli amici che ho qui. Neanche Francine, Robert o Didier sono come lo sei tu per me.

Mi venne addosso una tristezza infinita. Un altro amico che se ne va lontano. Cercai di sorridere, ma lui mi fissò serio.

— Voi italiani pensate sempre male…

Rimasi basito. Aveva interpretato male il mio sorriso? Cercava di ferirmi o di sfogarsi?

— So cosa pensate se un uomo dice queste cose a un altro uomo… — Ma sei matto, Louis? Ma che dici? Volersi bene non significa chissà…

Non mi fece finire la frase. Si scusò per la sciocchezza detta. Pensava che avessi frainteso il suo abbraccio e la sua commozione. Ma un’amicizia che durava da anni non lasciava spazio a dubbi. Vidi davvero la sofferenza nei suoi occhi.

Più tardi, in camera, stavo scrivendo un paio di cartoline. Louis era già dalla sua parte del letto, stava leggendo. Sua madre venne a darci la buonanotte, augurandoci una buona visita a Versailles, già organizzata con Didier, Marcel e Robert.

Appena finito di scrivere, mi misi a letto. Louis si girò a guardarmi. Spense la luce. Dalla finestra, i fiochi raggi della luna davano alla stanza un alone da fiaba.

— Ti posso abbracciare? — mi chiese titubante. Lo feci io per lui. Si mise a piangere con la testa sul mio petto. Sembrava un bambino. Doveva sfogarsi. Avevo capito il dolore che lo attanagliava. Non era solo per me: era per tutto ciò che stava lasciando.

Restammo abbracciati. Mi parlò delle sue avventure da piccolo. In quel momento ero il fratello che gli mancava. Non vedeva le mie lacrime, per fortuna. Dovevo essere il più forte. Si addormentò piano, vicino a me. Sentivo la sua spalla contro la mia. Gli sfiorai la testa con la mano. “Mi mancherai molto anche tu,” pensai. Avrei voluto anch’io un fratello maggiore con cui giocare e confrontarmi.

Il sonno prese il sopravvento. La notte passò veloce.

La luce del sole mi abbagliò il viso il mattino dopo. Louis era in piedi davanti alla finestra. Mi sorrise e mi strizzò l’occhio.

— Forza, pigrone. Versailles ci aspetta. Voglio godermi come non mai questi nostri cinque giorni di felicità. Vediamo chi arriva per primo in bagno.

Ci arrivò lui, ovviamente. Intanto che aspettavo il mio turno, aprii le finestre. Una giornata limpida e stupenda ci aspettava. Respirai forte. Nulla ci avrebbe più fermato.

Il ritorno: La lettera e la promessa

Tre anni dopo, Parigi è ancora lì. Ma le persone sono altrove. Un incontro inatteso, una lettera che aspetta di essere letta, e il cuore che impara a lasciar andare.

Parigi, un maggio di tanti anni fa.

Erano passati tre anni da quando Louis e la sua famiglia si erano trasferiti in Canada. All’inizio arrivarono le telefonate, poi le lettere. Negli ultimi tempi, più nulla. Ogni tanto Nadine o Robert mi scrivevano per aggiornarmi, ma anche loro avevano perso le sue tracce. La corrispondenza si fece sempre più rara, fino a scomparire del tutto — iniziando dalle cartoline di Natale.

Avevo ancora una settimana di ferie da finire. La decisione fu improvvisa: partire per Parigi, ritrovare qualcosa del passato, qualcosa che mi facesse star bene. Qualcosa che non avevo più avuto, e che rimpiangevo.

Dopo il mio ritorno da Parigi, tre anni prima, molte cose erano cambiate nella mia famiglia. La spensieratezza, la felicità, e tanto altro erano spariti in qualche meandro oscuro tramato dal destino. Fu allora che mi accorsi, nella mia solitudine, che mi mancava. Mi mancavano quegli anni leggeri, quelle vacanze nella città luminosa, romantica, divertente. Mi mancavano quei ragazzi. Mi mancava Louis.

Mi svegliai presto il mattino successivo al mio arrivo. Avevo trovato un bell’albergo nei pressi di Avenue Marceau. Volevo il meglio, volevo godermi quei giorni prima di tornare alla mia vita.

Mi affacciai alla finestra: davanti a me, la Tour Eiffel si stagliava in tutta la sua bellezza. Il cielo era di un azzurro chiaro, i palazzi color avorio dai tetti grigi incorniciavano quel paesaggio. Più tardi, ero già tra la folla. Guardavo i volti delle persone come se cercassi qualcuno. Osservavo le vetrine, gli alberi che ombreggiavano dal sole caldo di quel maggio luminoso, come solo Parigi sa offrire.

Arrivai fino al Pont de l’Alma. Era quasi ora di pranzo. Mi fermai a metà per guardare la Senna e i battelli che la solcavano. Mi venne in mente quel giorno in cui Louis mi confessò la sua partenza per l’America. Una tristezza improvvisa mi assalì. Quasi corsi dall’altra parte del ponte. Mi ritrovai in Rue de l’Université, davanti a un bar. Avevo sete e fame. Entrai.

Seduto a un tavolino, gustavo un pranzo leggero, guardando la folla dalla vetrina. Una voce alle spalle mi fece trasalire:

Il est incroyable, je ne peux pas y croire, mais… Jean Paul!

Rimasi con il pane a metà tra la bocca e il piatto. Mi voltai di scatto. Didier era davanti a me, in piedi, allibito.

Mon Dieu, quanto tempo, caro amico…

Mi alzai. Didier mi abbracciò talmente forte che sentii quasi le costole incrinarsi. Era un rugbista, e ovviamente poco conscio della sua forza.

Era incredibile. Un segno del destino. Il primo ricordo del passato che si faceva vivo durante quella vacanza. Eravamo strabiliati. Lui era cambiato: barbetta biondiccia, tratti più adulti, capelli lunghi e ricci, ma lo stesso sorriso da bambino.

Ci raccontammo tutto quello che ci era accaduto in quei tre anni. Si scusò per il silenzio — viaggiava spesso con la squadra, gli allenamenti lo occupavano. Ma mi aveva sempre pensato. Dissi lo stesso, tralasciando le cose spiacevoli capitate a me.

Mi disse che aveva tutta la giornata libera e voleva dedicarla a me. Accettai.

La sera, finimmo a casa sua, dove viveva con sua madre, una signora simpatica di origini fiamminghe. Cenammo sul terrazzo, tra fiori, azulejos e vasi in coccio.

Dopo cena, prima di riaccompagnarmi in albergo, in camera sua iniziò a raccontarmi di tutti gli altri. Seppi della scomparsa di Marcel in un incidente. Che dispiacere. Seppi del trasferimento di Nadine a Saint-Étienne, del matrimonio di Robert. Poi, silenzio.

Sapeva che volevo parlare di Louis. Avevo un brutto presentimento. Ma il suo sorriso mi fece tirare un sospiro di sollievo.

Louis vive in Australia ora. Suo padre ha avuto un incarico speciale a Perth. Si sono trasferiti lì otto mesi fa. L’avevo incontrato qui poco prima, ma come al solito… non ci siamo scambiati i recapiti. Capisci? Odio gli addii.

Lo sapevo. Era per quello che, il giorno della mia partenza, tre anni prima, non si fece vedere. Mi mandò i saluti tramite Robert.

Mi aveva chiesto di te, ma non seppi dargli l’indirizzo. Perdonami, Jean. Mi dispiace…Non fa nulla, — gli risposi. — L’importante è che stia bene. E magari, un domani… chissà. Forse ci ritroveremo tutti quanti.

Il suo volto si rabbuiò. Didier era troppo sensibile. Riviveva, ad ogni addio, il trauma dell’abbandono del padre. Sentiva il distacco come un rifiuto.

Non continuai. Si alzò improvvisamente. Da un cassetto della scrivania prese una lettera.

Tieni. È per te. Me l’aveva data Louis l’ultima volta. Mi disse: “Se un giorno incontrerai Jean, dagli questa.” Quasi se lo sentiva, quel testone. Tieni. È tua. Leggila da solo, in albergo.

La busta era color avorio. Sopra, in blu: Pour mon ami JP. Sentii le lacrime agli occhi.

Dopo aver salutato sua madre, madame De Claudet, Didier mi riaccompagnò in auto fino all’hotel.

Jean, mi dispiace. Domani parto per Lille. Ho gli allenamenti per la fine del campionato. Starò via una settimana…Non importa, — gli dissi. Ci abbracciammo forte. Mi prese la mano, come non volesse lasciarmi andare. Lo guardai. Nei suoi occhi, tutta la sua solitudine.

Cerca la tua felicità, — gli dissi, scendendo dall’auto. — Lo farò, te lo prometto. È ora anche per me. Ciao, caro amico mio…

Fu l’ultima volta che lo vidi.

La Tour Eiffel si stagliava illuminata davanti ai miei occhi. Seduto sul terrazzino della mia camera, rigiravo la busta che mi aveva lasciato Louis. Avevo paura ad aprirla. Non ne capivo il perché.

Poi, sentii un profumo di fiori dal balcone accanto. La aprii.

Lessi quelle parole scritte in cinque pagine. Parole fitte. Ogni lettera si scolpiva nella mente e nel cuore. Quando finii, mi accorsi di piangere. Appoggiai la testa sul tavolino. Mi sfogai.

La settimana passò in fretta. Decisi di fare solo il turista. Avevo capito che il passato dovevo lasciarlo andare. Rilegarlo in una parte del cuore e della mente.

Quando, finita la vacanza, partii per l’Italia, dall’aereo vidi la grande città dall’alto. Sentii nell’anima che quella era l’ultima volta. Sentii che l’avrei rivista dopo tantissimi anni. Ma non avrei rivisto più le persone che in quegli anni fecero parte della mia vita.

E così fu.

Eravamo lì. E forse lo siamo ancora.

Giampaolo Daccò Scaglione