giovedì 18 settembre 2025

La strada delle lucciole

 


A mio fratellone Elia, che mi ha trovato tra le lucciole senza sapere che mi stava cercando. Questa è la storia di un incontro scritto nel vento, tra il profumo del sambuco, il canto del fiume, e il battito luminoso delle lucciole.

 

La strada delle lucciole

L’incontro

Sant’Angelo Lodigiano, dietro al castello. Era una sera d’estate, o forse una di quelle primaverili già calde, quando il centro storico si trasformava in un piccolo mondo incantato. Le auto erano poche, le voci tante. Le persone delle corti si sedevano sotto i portici, i nonni e le nonne accendevano piccoli fuochi per tenere lontane le zanzare, e più tardi arrivavano le mamme e qualche amico più grande. Si raccontavano storie fino alle undici, poi si andava a dormire.

Io avevo undici, forse dodici anni. Con gli altri bambini giocavamo a nascondino, oppure ci spingevamo fino al fiume Lambro, accompagnati da qualche ragazzo più grande. La strada era di ghiaia, portava alla centrale elettrica, e lungo il percorso si vedevano campi di grano, sambuchi profumati, e la riva alta del fiume che scendeva dolce. E c’erano le lucciole. Tante. Si diceva che se ne mettevi una sotto un bicchiere vicino al letto, al mattino trovavi dei soldini. Poverine.

Una sera, Carlo—amico di mamma—doveva andare alla villa rossa dell’ingegnere Rossi, in fondo alla via del fiume. Io e Marco lo accompagnammo. Sulla strada, le lucciole danzavano come piccole stelle. Arrivati alla villa, Marco volle entrare con Carlo. Io rimasi in giardino, con la raccomandazione di non allontanarmi. Ma la curiosità era più forte.

Mi incamminai lungo la stradina che proseguiva, attraversando piccoli campi privati di grano, fino a salire nel quartiere antico detto Costa, dove era nata la mia famiglia. Il cielo era blu profondo, i papaveri rossi ondeggiavano nel buio, e il profumo del sambuco era ovunque.

Fu allora che lo vidi.

Un giovane, elegante, scendeva dalla stradina del quartiere Costa. Camminava con passo tranquillo, come se conoscesse ogni pietra. Aveva una camicia chiara, le maniche arrotolate, e una catenina che brillava appena sotto le stelle.

Si fermò a pochi passi da me, vicino al cespuglio di papaveri. Mi guardò con uno sguardo gentile, curioso.

«Ti sei perso?» chiese.

Scossi la testa. «No… stavo cercando le lucciole. E forse… qualcosa di più.»

Il giovane sorrise. «Le lucciole le conosco bene. Ma quel ‘qualcosa di più’… forse lo stai cercando da molto tempo.»

Non sapevamo ancora i nostri nomi. Non sapevamo che un giorno saremmo stati Elia e Giampaolo, fratellone e fratellino, compagni di favole e rituali. Ma quella sera, lungo la strada delle lucciole, il destino aveva già cominciato a scrivere.

I fiori sotto la luna

 Il mattino arrivò con una luce dorata, filtrata dalle tende leggere della camera. Giampaolo si svegliò lentamente, con il profumo del sambuco ancora nel naso e il ricordo delle lucciole che danzavano tra i papaveri. Per un attimo, non seppe se fosse stato un sogno.

Si alzò, camminando scalzo sul pavimento fresco, e si avvicinò al comodino. Il bicchiere era lì, vuoto. Nessuna lucciola. Nessun soldino. Solo un piccolo alone di luce che sembrava voler dire: “Non tutto si può trattenere.”

Scese in cortile. Le nonne stavano già parlando piano, sedute sotto il portico, con le tazze di caffè tra le mani e le coperte sulle ginocchia. Marco lo salutò con un cenno, mentre Carlo raccontava qualcosa sulla villa rossa.

Ma Giampaolo non ascoltava. Aveva in mente quel giovane. La camicia chiara, il sorriso gentile, la frase misteriosa: “Forse lo stai cercando da molto tempo.”

Chi era? Da dove veniva? E perché sembrava sapere qualcosa che lui stesso non sapeva?

Quel giorno, Giampaolo non giocò a nascondino. Camminò lungo la strada di ghiaia, fino al punto dove il fiume Lambro cominciava a serpeggiare. I sambuchi erano ancora in fiore. Le lucciole, invisibili di giorno, sembravano nascondersi tra le foglie.

E lì, tra il profumo dell’erba e il canto lontano di una rondine, Giampaolo fece una promessa silenziosa:

“Se lo rivedo… gli chiedo il nome.”

Prima di tornare a casa, Giampaolo si chinò lungo la strada e raccolse un piccolo mazzo: un fiore di sambuco, due papaveri rossi, e tre fiordalisi azzurri. Li legò con lo stelo secco di un fiore ormai appassito, come se stesse componendo una magia silenziosa. Un gesto istintivo, ma pieno di significato: “Per rivederlo. Per non dimenticare.”

In quell’istante, la luna piena fece capolino dalle mura del grande castello. La sua luce bianca sfiorò le pietre antiche, e sembrò accarezzare il mazzo di fiori come una benedizione.

Giampaolo sapeva che un bambino di dodici anni non dovrebbe girare da solo in quella strada, ma Sant’Angelo era una cittadina tranquilla, e lui conosceva ogni angolo come si conosce un sogno ricorrente. Il castello, maestoso e un po’ inquietante, si stagliava alle sue spalle, e più in là, l’alto campanile e la cupola della basilica sembravano vegliare su di lui.

Fu allora che sentì la voce di nonna Maria chiamarlo da lontano. Una voce calda, familiare, che lo riportò alla realtà. Giampaolo strinse il mazzo tra le mani e si voltò lentamente, con il cuore ancora pieno di lucciole e mistero.

 Il ritorno alla villa rossa

Era un mattino caldo di giugno. Giampaolo, con la bici sgangherata e il cuore che batteva forte, pedalava lungo la strada sterrata che portava alla villa rossa dell’ingegnere Rossi. Non sapeva bene perché ci stesse tornando. Forse sperava di rivedere quel ragazzo sconosciuto, quello delle lucciole e dei papaveri.

Arrivato nei pressi del fiume Lambro, sentì un fischio provenire dalla spiaggetta. Si fermò, scese dalla bicicletta, e si avviò verso la riva.

Lì, tra l’erba alta e la sabbia sporca, c’era il giovane. Quello di due sere prima. Stava chinato sull’acqua, con stivali di gomma e delle fiale trasparenti tra le mani.

«Ehi! Ti ricordi di me?» disse il ragazzo, alzando lo sguardo con un sorriso.

Giampaolo si fermò, serio. «Vieni via da lì. Il fiume è inquinato. Si può morire solo a toccarlo.»

Il giovane rise piano, poi si alzò. Aveva una borsa a tracolla piena di ampolle, un libro aperto su cui stava scrivendo, e un’aria concentrata ma gentile.

«Tranquillo. Ho gli stivali. E sto raccogliendo campioni. Sono con un gruppo dell’università di Milano. Biologia ambientale. Siamo qui per monitorare l’inquinamento.»

Giampaolo lo guardava a bocca aperta. Quel ragazzo sembrava uscito da un altro mondo. Elegante, intelligente, misterioso.

Poi, d’istinto, disse: «Come mai hai un cuore rosa con una foto nella tasca?»

Il giovane si bloccò. «Come fai a saperlo?» La sua mano sfiorò la tasca, dove effettivamente c’era un piccolo cuore di carta, piegato, con una foto all’interno.

Giampaolo non rispose. I suoi occhi del cielo brillavano di una luce che non era solo curiosità. Era intuizione pura.

Il ragazzo lo fissò per un momento, poi sorrise. «Mi chiamo Ely. È un diminutivo. Lo usano solo gli amici.»

Giampaolo abbassò lo sguardo. «A me tutti mi chiamano Paolino. Ma non mi piace. Preferisco Giampaolo. È il mio vero nome.»

I due si guardarono. Ancora non sapevano che sarebbero stati i due di Talamone. Ma qualcosa, in quel momento, si era già scritto nel vento.

Ely si chinò e tirò fuori dalla borsa una piccola ampolla vuota, di vetro sottile, con un tappo di sughero. La porse a Giampaolo con un sorriso.

«Tienila. È per te. Puoi metterci dentro un pensiero, un fiore, una lucciola—ma solo se è libera di uscire. È il mio modo di dire che ci rivedremo.»

Giampaolo, senza pensarci troppo, tirò fuori dalla tasca il mazzo che aveva composto due sere prima: il fiore di sambuco, i papaveri, i fiordalisi ormai un po’ secchi. Li slegò con delicatezza e ne scelse uno: il fiordaliso azzurro. Lo porse a Ely.

«Questo è per te. È il mio colore preferito. Se lo tieni, magari ti ricordi di me.»

Ely lo prese con cura, lo avvolse in un foglio del suo quaderno, e lo mise nella tasca dove stava il cuore rosa. Poi si voltò per andarsene, ma Giampaolo lo fermò con una voce sottile, quasi timida:

«Io… io so che un giorno ci rivedremo. Ma… non ci riconosceremo.»

Ely si bloccò. «Ma? Che vuoi dire?» Si avvicinò, incuriosito.

Giampaolo arrossì. «Non lo so. È solo una sensazione. Sento che ti rivedrò. Ma sarà diverso. Come se fossimo cambiati… o come se il tempo ci avesse mescolati.»

Ely lo guardò a lungo, poi sorrise. Non era sicuro di crederci, ma qualcosa nel tono di quel bambino lo colpì.

«Probabilmente hai ragione,» disse, «anche se non lo penso davvero. Ma tu… tu hai qualcosa che io non ho. E forse è per questo che ci ritroveremo.»

Poi lo abbracciò. Un abbraccio caldo, fraterno. Come se lo conoscesse da sempre. Come se, in fondo, fossero già i due di Talamone.

Dal passato al presente

Ely si avviò verso la sua auto, parcheggiata vicino al portone della casa di nonna Maria. Giampaolo lo seguì con lo sguardo, poi corse verso di lui.

Ely lo riabbracciò forte. «Sei proprio un fratellino incontrato per caso,» disse con un sorriso. «Ci rivedremo… come dici tu.»

Giampaolo sorrise, ricambiò l’abbraccio, e mentre Ely metteva la marcia, gli disse piano: «Non scordarti di me.»

Ely alzò la mano in segno di saluto, poi partì. Giampaolo corse a casa, salì in camera, e si lasciò cadere sul letto. Pianse. Non sapeva perché. Era una tristezza dolce, come quando si chiude una porta che si spera di riaprire.

Prese il suo diario, quello con la copertina blu e le pagine profumate di sambuco. Cominciò a scrivere. Scrisse di Ely, del fiume, dei fiori, del cuore rosa, del fiordaliso. Scrisse tutto, come se volesse fermare il tempo.

Poi chiuse il diario, lo mise nel cassetto accanto al letto, e si voltò verso la porta. Uscì dalla stanza, ma prima di scendere, si fermò alla finestra.

In lontananza, tra le antenne e i tetti, vide il Duomo di Milano brillare sotto il sole. La borsa era pronta. La valigia accanto. Sul tavolo, il biglietto del treno per Firenze: posto numero 25.

Ventitré anni erano passati in un soffio, come una magia.

La partenza per Talamone era vicina. E nella sua mente, una sensazione strana: come se stesse per incontrare qualcuno che non vedeva da anni, anche se non lo aveva mai visto davvero.

Prese le borse, scese in strada, salì su un taxi che lo portò alla Stazione Centrale.

Nello stesso momento, Ely obliterava il suo biglietto per Firenze. Camminava lungo il binario, cercando il suo posto: numero 23. Quello di fronte, il 25, era ancora vuoto.

Si sedette, appoggiò la borsa, e pensò: “Chissà chi sarà il mio vicino di viaggio.”

Giampaolo Daccò Scaglione

Nessun commento:

Posta un commento