sabato 6 settembre 2025

Addii senza addio

 A chi parte senza essere salutato. A chi resta senza essere visto. A chi ha amato nel silenzio, e ha avuto il coraggio di ricominciare. Questa storia è per voi. E per me.

Giampaolo



Addii senza addio

Era una decisione presa non completamente da me. Era il 1995, avevo solo trentacinque anni: nel pieno della forza, della giovinezza, della bellezza… e della sofferenza. Mamma stava sempre peggio. Gli psichiatri l’avevano ormai presa in carico e, nel giro di poco, sarebbe stata ricoverata definitivamente in un istituto. I parenti erano spariti, come spesso accade quando si ha davvero bisogno di sostegno. A volte penso sia una barzelletta poco divertente. Altre, una tragedia greca.

Papà era assente da tempo. Anzi, era diventato un nemico, solo perché avevamo scelto di stare accanto a mamma dopo la separazione. Francesca era morta da soli quattro anni. In quattro mesi avevo perso il lavoro, non avevo più denaro, e nemmeno l’affitto mi era stato rinnovato. Così, come in un incubo, quel mattino feci le valigie. Dopo l’ultima doccia in quella casa tra il fiume e il castello, vidi riflessi negli specchi i miei occhi azzurri, tristi. I capelli biondi lunghi, la bocca serrata, senza un sorriso.

La sera prima, tre amici di Milano mi avevano promesso che sarebbero venuti a prendermi nel pomeriggio. Mi avrebbero portato a casa loro, dove mi aspettava una stanza con un piccolo bagno e un lavoro di quattro ore in una chat line. Sapevo che, in poche ore, non sarei più tornato nella cittadina dove — nel bene e soprattutto nel male — avevo vissuto mancanze, perdite, qualche gioia. Avevo salutato i miei amici con le solite promesse false: “Ci sentiamo”, “Ci rivediamo”, “Rimaniamo in contatto”… le frasi che si dicono quando si sa che non accadrà.

Mamma, nonostante avesse visto le valigie, non sapeva che presto i dottori — che mi avevano detto di andare via, di iniziare una nuova vita, che a lei ci avrebbero pensato loro — l’avrebbero ricoverata. Avevo sistemato tutto in banca: il denaro, la pensione d’invalidità, l’accompagnamento e quella di lavoro. Tutto sarebbe stato gestito dalla banca con la mia firma, tenendo aperto il suo conto. Mi avevano aiutato molto. La retta dell’istituto sarebbe stata pagata da lì.

Quando arrivarono i miei amici nel pomeriggio, avevo finito di piangere. Presi due delle tre valigie; la terza la portò Memma, in silenzio, con uno sguardo che diceva più di mille parole. Mamma sembrava felice di mandarmi via. O almeno, così appariva. Nella sua mente confusa, forse pensava che stessi andando in vacanza. Mi guardò come si guarda uno sconosciuto e mi disse: “Buon viaggio.” Poi si voltò e se ne andò verso casa, ignara del suo destino. Mi lasciò di sasso. Come fossi un estraneo. I miei amici non seppero cosa dire.

Caricammo le valigie nel portabagagli. Salii sul sedile posteriore dell’auto. E partimmo. Milano ci aspettava. La mia nuova vita mi aspettava. Non mi voltai nemmeno per guardare le case, le persone, le strade. Dopo una mezz’ora, vidi Milano stagliarsi davanti a me, in quel pomeriggio freddo di fine inverno. Chiusi gli occhi. Pregai per me.

La macchina fu inghiottita nel traffico. Le strade sembravano zampe, tentacoli di un ragno o di una piovra. Ci aveva inghiottiti, diventando parte delle migliaia di esseri che popolavano quella città. Dalla finestra della mia nuova camera vedevo dei giardini. E la notte. Era iniziata la mia nuova vita. E non sapevo dove mi avrebbe portato.

 

Nota d’autore

Questo racconto nasce da una memoria che non ha mai smesso di pulsare. Nel 1995, a trentacinque anni, ho lasciato una casa, una madre, una città — e una parte di me. Non è una storia inventata. È una verità vissuta, fatta di addii che non hanno avuto voce, di strade che non ho più percorso, di sguardi che non ho più incrociato. Scriverla oggi non è solo un atto di ricordo, ma di riconciliazione. Con il dolore, con la forza, con la vita che mi ha portato altrove.

Giampaolo

 

Riflessione finale

Non sempre si parte per scelta. A volte si parte perché la vita ci spinge, ci strappa, ci costringe a lasciare ciò che amiamo. Nel 1995 non ho voltato lo sguardo, non per indifferenza, ma per protezione. Perché voltarsi avrebbe significato spezzarsi.

Milano non mi ha regalato nulla. Ogni passo l’ho conquistato da solo, con fatica, con silenzi, con notti lunghe. Non era il futuro che avevo immaginato, ma era quello che mi aspettava. E oggi, guardando indietro, non cerco giustificazioni. Cerco solo di comprendere.

Le scelte e il destino imposto hanno segnato gli anni. Ma io li ho vissuti. E questo racconto non è un lamento, né una richiesta. È una testimonianza. È il modo in cui dico: “Sono stato lì. Ho sentito tutto. E sono ancora qui.”


Giampaolo Daccò Scaglione

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