“Ci sono abbracci che non si dimenticano. E lettere che arrivano quando il cuore è pronto.”
Questa è una storia vera. Una storia di amicizia, di viaggi, di lettere mai dimenticate. Tra Grecia e Parigi, tra tramonti e terrazze, tra abbracci e silenzi, ho vissuto momenti che mi hanno cambiato. Non è solo il racconto di un tempo passato, ma il ritratto di ciò che resta quando le persone se ne vanno: la memoria, la gratitudine, e l’amore fraterno. A chi ha avuto un amico così, dedico queste pagine.
“Parigi ci ha visti così. Due ragazzi, un ponte, un tramonto. E un’amicizia che non ha mai chiesto spiegazioni.”
Il fratello che non avevo
Grecia, giugno 1982.
Qualche ora prima, l’aereo che mi aveva portato ad Atene era già un ricordo lontano. Ora sedevo in disparte sul traghetto, con la mia valigia e una sacca ai piedi, osservando le isole che si profilavano all’orizzonte. L’isola che mi aspettava sarebbe apparsa di lì a poco, e infatti, dopo pochi minuti, si intravedevano le prime rocce delle alture.
La luce accecante del sole, nonostante gli occhiali scuri, mi impediva di vedere più di qualche macchia verdastra su quelle rocce chiare. Ma man mano che ci avvicinavamo al porto, le macchie si facevano nitide: cespugli mediterranei, fiori gialli e rossi, piccoli ulivi, case bianche con porte e finestre colorate.
Il traghetto virò a destra e si avvicinò al porto. Non c’erano più solo macchie bianche e verdi, ma tanta gente, tante case, tanti fiori selvatici. Dopo l’attracco, ci mettemmo in fila per scendere. Intorno a me, voci, bambini che gridavano, valigie che spingevano.
Finalmente arrivai in una piazzetta dalle mattonelle bianche con disegni strani. Dopo una lunga sosta sotto il sole, salii su un taxi vecchiotto guidato da un uomo coi baffi e un sorriso smagliante. Conosceva l’italiano, e fu facile spiegargli dove si trovava il mio alloggio: una parte di un’abitazione familiare affittata ai turisti.
La strada era in salita, non lontana da una chiesetta circondata da case in stile mediterraneo. Poi, con sorpresa, la strada riscendeva verso il mare in leggere curve. Arrivai davanti a quella struttura semplice ma meravigliosa: bianca, con un portone coperto di bougainvillea e persiane celesti. Una terrazza piatta faceva da tetto.
Pagato il taxi, una signora gentilissima mi venne incontro. Parlava un italiano un po’ strano, ma mi accompagnò in casa, dove conobbi il marito e uno dei tre figli. Dopo le presentazioni e le formalità, attraversammo un cortile pieno di bougainvillea rosse, piante di cedro e rampicanti dai fiori bianchi. L’altro lato della casa mostrava due piani, con una scala esterna dipinta di bianco e azzurro.
La signora mi disse che sotto c’erano quattro ragazze inglesi, al primo piano un signore turco che scriveva racconti, uno studente tedesco… e accanto alla mia camera, un ragazzo francese di nome Louis.
Entrai nella mia stanza: un piccolo soggiorno con tavolo, sedie, buffet, letto matrimoniale con lenzuola bianche, comodino, armadio. Il bagno era comune, ma pulito e decorato in stile greco. Tutto sembrava perfetto, tranne me.
La signora si sincerò che fosse tutto di mio gradimento, poi uscì con un sorriso dolce. Aprii la grande finestra: davanti a me, il mare. Il sole era alle spalle, quasi al tramonto. Le luci del paese si accendevano, e una brezza lieve portava frescura a quella lunga giornata.
Decisi di farmi una doccia. Entrai nel bagno convinto fosse vuoto… e mi trovai davanti Louis, completamente nudo, che cantava insaponandosi. Spaventati entrambi, lui scivolò nella tazza, io feci cadere l’attaccapanni. Scoppiammo in una risata fragorosa. Non sapevo più come scusarmi.
Due ore dopo, cenammo insieme in un piccolo ristorante vicino alla casa. Avevo deciso di stare solo, ma quella sera cambiai idea. Con Louis ci intendemmo subito. Il giorno dopo ci ritrovammo per caso in spiaggia, vicino a una caletta. Parlammo di cose leggere, poi ognuno raccontò la propria storia. E fu lì che scoprimmo che erano uguali.
Due ventenni, di città diverse, fisicamente simili, stesse scuole, una sorella ciascuno, genitori in crisi, passione per l’astronomia, e una storia d’amore dolorosa alle spalle.
Pensavo di fare una vacanza bohémienne, per distruggere il cuore ferito. Ma invece… fu una vacanza strepitosa. Balli, escursioni, bagni, risate. Milano sembrava lontanissima. Louis ed io parlavamo di tutto, tranne delle nostre storie private.
Una sera, la penultima, eravamo sul terrazzo. Le luci brillavano, le barche sembravano lucciole. Louis iniziò a raccontare la sua storia. La voce si incrinava. Era la mia storia, con altri nomi. Quando finì, mi guardò. Raccontai la mia. Piangevo in silenzio.
Un aereo passò sopra di noi. Louis mi abbracciò. Un pianto liberatorio. Alle nostre spalle, una voce maschile: il proprietario della casa. Disse solo: “A quanto pare, una bella serata per tutti.” Ci sorrise, ci raccontò la sua storia. Diversa, ma simile. Ci accompagnò nelle nostre camere. Quella sua storia ci aiutò a capire, a sopportare, a guardare lontano. Che uomo, Nesios.
Due giorni dopo, Louis ed io eravamo in aeroporto. Ci scambiammo indirizzi e numeri. “Ci rivedremo?” “Sì, lo giuro.” Mi diede una bambola con capelli neri, come lui. “Ricordami, per sempre.” “Sì, per sempre.”
L’aereo partì. Piangevo. Non sapevo se per la fine della vacanza, per l’amico che lasciavo, o per tutto ciò che avevo vissuto. Guardai fuori dal finestrino: l’isola si allontanava, la casa bianca dalle persiane azzurre diventava un punto nel blu. Dentro di me, sapevo che qualcosa era cambiato. Avevo trovato il fratello che non avevo.
Parigi: La città che accoglie
Passeggiate sotto la pioggia, croissants e cioccolata, e un ritratto misterioso che somiglia troppo. Parigi diventa il teatro di nuove emozioni e vecchi destini.
Parigi, molti anni fa.
La pioggerellina scendeva lenta sui tetti e nei viali. Le bancarelle di fiori e libri sul Boulevard dell’Île Saint-Louis erano quasi deserte. Mi fermai davanti a una boulangerie: avevo fame. Una voce alle spalle mi fece voltare.
— Bonjour, je suis désolé pour le retard, Jeanpaul. — Pas de problème, Louis. Je suis ici depuis quelques minutes.
Il mio amico parigino non sapeva più come scusarsi. Allora, visto il ritardo, lo “obbligai” a offrirmi la colazione. Ridendo, entrammo in un bar-pasticceria e ci sedemmo vicino a una finestra sulla strada. Davanti a due tazze di latte e caffè, croissants, pain et beurre et confiture, facemmo una colazione da re.
Ero ospite da lui per una breve vacanza. Quel mattino avevamo deciso di visitare il Louvre. Alle nove e trenta ci raggiunsero tre coppie di suoi amici: una sposata, una fidanzata da una vita, e una coppia di ragazze gay. Martine, Lorraine, Didier, Jiulienne, Jean-Marc e Francine.
Mentre la pioggia cadeva ancora lenta, visitammo una parte del museo, pranzammo in una brasserie, e poi una lunga passeggiata a Montparnasse. Louis mi raccontava della sua storia un po’ incasinata. Guardavo le tre coppie sotto gli ombrelli colorati e le invidiavo un po’. Ogni tanto, la risata cristallina di Martine risuonava alle battute della sua compagna Lorraine.
Che atmosfera stupenda di fine estate. Poi, la brillante idea di prenderci una cioccolata. Louis ci portò in una pasticceria nei pressi del Boulevard de Clichy, e decise di offrire lui, questa volta.
All’interno, le note di una canzone di Yves Montand provenivano da una radio nascosta dietro al bancone. Una ragazza dagli occhi blu e capelli neri sorrideva dalla cassa dove andai a ordinare. Mi sorrise, e alla fine, dopo aver pagato, disse:
— Monsieur, êtes-vous italien? — Il savait de mon accent? — le risposi. — Non seulement cela, mais son visage en dit. Bienvenue à Paris alors. — Merci, elle est très gentille, mademoiselle...? — Claudine. Je m'appelle Claudine. — sorrise alla grande. — Giampaolo, plaisir. — dissi, un po’ imbarazzato.
Lei continuava a guardarmi mentre ero al tavolo con i miei amici. Mi girai verso la strada: la pioggia continuava a cadere. Un’altra coppia sotto l’ombrello correva sul marciapiede per raggiungere un portone.
All’orecchio giunse una musica bellissima: Les feuilles mortes. Voltai lo sguardo verso Claudine e ricambiai il sorriso. “Benvenuto a Parigi”, mi dissi da solo. Louis mi guardò con aria interrogativa. Presi un pasticcino al cioccolato e me lo gustai tranquillo, mentre la pioggia continuava a cedere davanti a noi.
Place des Vosges e il ritratto
Quel giorno avevamo deciso di visitare la zona della Bastille. Dopo una lunga camminata tra Place de la Bastille e il canale de l’Arsenal, ci fermammo in un bistrot sulla Senna, davanti all’Île Saint-Louis. Mentre mangiavamo qualcosa, ci accorgemmo che un signore anziano, vestito con un soprabito verde e un basco beige, continuava a fissarmi.
Louis si stava seccando — odiava le persone che fissavano senza motivo. Stavamo per andarcene, quando l’uomo si avvicinò.
— Perdonatemi la maleducazione, ma vorrei fare una domanda al ragazzo biondo. Se posso… — Spero non sia una seccatura, — rispose Louis, visibilmente infastidito. — No, no… volevo solo chiedere se fosse tedesco.
— No, sono italiano, — risposi nel mio francese stentato. — Che strano… avrei giurato che lo fosse. Ma vorrei spiegarmi meglio. Se volete seguirmi, vi farò perdere solo qualche minuto. Parola di Didier Rainer. Mi piace dipingere, e volevo mostrarvi una cosa.
Non so perché, ma lo seguimmo. L’uomo era discreto, gentile, senza secondi fini. Ci raccontò di un amico tedesco conosciuto durante la guerra, un dissidente che odiava Hitler e che trovò rifugio in Francia. Lo aveva nascosto con la sua famiglia, poi lo perse di vista: partì per gli Stati Uniti con un passaporto falso.
Camminammo tra Rue Saint-Paul, Rue de Saint-Antoine, e infine nella piccola Rue de Birague, fino a sbucare nella Place des Vosges. Non l’avevo mai vista. Rimasi incantato. L’architettura sublime, i portici, i giardini… un tuffo al cuore. Louis rise vedendo la mia espressione.
— La stessa faccia che fece Erik quando vide questa meraviglia, — disse Didier. — Aspettatemi qui. Cinque minuti. Vi devo mostrare una cosa.
Sparì in un portone. Louis fumava una sigaretta, io vagavo tra i giardini. Poi mi chiamò. Mi avvicinai. Didier era sotto il portico, con un quadro coperto da un telo.
Lo scoprì. La sigaretta di Louis cadde dalle sue labbra.
— Merde… pardon. Mon Dieu. Non è possibile. Paolo, guarda!
Mi avvicinai. Impallidii. Quel volto… sembrava il mio. Aveva solo il naso leggermente diverso, ma ero io. Didier mi guardò negli occhi.
— Capisce perché ho sentito il desiderio di fermarmi?
Mi fece una foto nella stessa posizione del ritratto. Ma quella foto non la vidi mai. Non tornammo più da quelle parti nei giorni successivi. Chissà se Didier ritrovò mai il suo amico. Chissà se quel ritratto era davvero un segno. Chissà se il destino… ci osserva da un angolo della piazza.
L’addio: Cinque giorni di felicità
Un tramonto sulla Senna, un abbraccio che parla più delle parole, e la consapevolezza che l’amicizia vera non ha bisogno di spiegazioni. Ma sente ogni distanza.
Tramonto rosso fuoco. La Tour Eiffel si stagliava tra il rosso del sole e il rosato e oro del cielo. Venere brillava poco più in alto. Louis ed io eravamo appoggiati con le braccia sul Pont du Carrousel. Alla nostra sinistra, due signori anziani osservavano un battello scivolare sotto di noi sulla Senna. Alla destra, il Louvre, imbrunito dalle ombre della sera, sembrava quasi un’ombra minacciosa.
Era uno dei miei ultimi giorni di vacanza a Parigi, a casa di Louis. I nostri volti erano rivolti verso quella torre così alta e scura, i pensieri persi chissà dove. Improvvisamente sentii il suo sguardo su di me. Quando voltai il viso, i suoi occhi sembravano lucidi.
— Che c’è? — chiesi, girandomi con la schiena appoggiata al ponte. — Nulla… nulla… — rispose con voce triste. Poi mi abbracciò forte.
Mi preoccupai. Pensavo non stesse bene. Si staccò, chiedendomi scusa per il gesto, temendo fosse frainteso.
— Frainteso? — pensai. Era solo un abbraccio, quello di un amico in difficoltà. Avevamo dormito nello stesso letto, condiviso giorni e notti. C’era pura amicizia tra noi. Una di quelle vere, rare, che appagano il cuore e la mente.
— Mi dispiace che tu te ne vada… che ritorni in Italia tra pochi giorni. — Tra cinque giorni, Louis… — sdrammatizzai, abbozzando un sorriso.
Mi prese per un braccio e mi condusse in silenzio verso Rue des Saints-Pères. Quasi correndo, ci ritrovammo in Boulevard Saint-Germain.
— Preferisco stare in mezzo alla gente, non soli su quel ponte a guardare quel tramonto, la Senna, e tu pensieroso. Tutto questo mi aveva messo addosso una tristezza… Almeno qui, in mezzo alla gente, mi sento meglio.
— Louis, davvero non capisco. Non è la prima volta che vengo a Parigi, che ci vediamo… Mi hai promesso di venire a Milano ad aprile del prossimo anno. Non dovresti essere triste.
— Ma questa volta è diverso.
Si sedette a un tavolino di un bar. Mi sedetti anch’io.
— Come sarebbe a dire: questa volta è diverso?
Il suo sguardo era oltre il mio.
— Partiamo per il Canada, con i miei. Partiremo tra due mesi. L’ho saputo stamattina da papà. Ci trasferiamo lì per tre anni. Ha avuto un incarico di lavoro per la sua società…
Mi venne un colpo. Tre anni lontani. Un aprile senza la sua visita. Un vuoto che si apriva.
— Beh, c’è il telefono. Ci potremmo scrivere… — Sì, ma non è la stessa cosa, Jean… — mi chiamava così quando era triste. — Lo sai che sei un fratello per me. Un fratello che non ho mai avuto. Sei molto di più degli amici che ho qui. Neanche Francine, Robert o Didier sono come lo sei tu per me.
Mi venne addosso una tristezza infinita. Un altro amico che se ne va lontano. Cercai di sorridere, ma lui mi fissò serio.
— Voi italiani pensate sempre male…
Rimasi basito. Aveva interpretato male il mio sorriso? Cercava di ferirmi o di sfogarsi?
— So cosa pensate se un uomo dice queste cose a un altro uomo… — Ma sei matto, Louis? Ma che dici? Volersi bene non significa chissà…
Non mi fece finire la frase. Si scusò per la sciocchezza detta. Pensava che avessi frainteso il suo abbraccio e la sua commozione. Ma un’amicizia che durava da anni non lasciava spazio a dubbi. Vidi davvero la sofferenza nei suoi occhi.
Più tardi, in camera, stavo scrivendo un paio di cartoline. Louis era già dalla sua parte del letto, stava leggendo. Sua madre venne a darci la buonanotte, augurandoci una buona visita a Versailles, già organizzata con Didier, Marcel e Robert.
Appena finito di scrivere, mi misi a letto. Louis si girò a guardarmi. Spense la luce. Dalla finestra, i fiochi raggi della luna davano alla stanza un alone da fiaba.
— Ti posso abbracciare? — mi chiese titubante. Lo feci io per lui. Si mise a piangere con la testa sul mio petto. Sembrava un bambino. Doveva sfogarsi. Avevo capito il dolore che lo attanagliava. Non era solo per me: era per tutto ciò che stava lasciando.
Restammo abbracciati. Mi parlò delle sue avventure da piccolo. In quel momento ero il fratello che gli mancava. Non vedeva le mie lacrime, per fortuna. Dovevo essere il più forte. Si addormentò piano, vicino a me. Sentivo la sua spalla contro la mia. Gli sfiorai la testa con la mano. “Mi mancherai molto anche tu,” pensai. Avrei voluto anch’io un fratello maggiore con cui giocare e confrontarmi.
Il sonno prese il sopravvento. La notte passò veloce.
La luce del sole mi abbagliò il viso il mattino dopo. Louis era in piedi davanti alla finestra. Mi sorrise e mi strizzò l’occhio.
— Forza, pigrone. Versailles ci aspetta. Voglio godermi come non mai questi nostri cinque giorni di felicità. Vediamo chi arriva per primo in bagno.
Ci arrivò lui, ovviamente. Intanto che aspettavo il mio turno, aprii le finestre. Una giornata limpida e stupenda ci aspettava. Respirai forte. Nulla ci avrebbe più fermato.
Il ritorno: La lettera e la promessa
Tre anni dopo, Parigi è ancora lì. Ma le persone sono altrove. Un incontro inatteso, una lettera che aspetta di essere letta, e il cuore che impara a lasciar andare.
Parigi, un maggio di tanti anni fa.
Erano passati tre anni da quando Louis e la sua famiglia si erano trasferiti in Canada. All’inizio arrivarono le telefonate, poi le lettere. Negli ultimi tempi, più nulla. Ogni tanto Nadine o Robert mi scrivevano per aggiornarmi, ma anche loro avevano perso le sue tracce. La corrispondenza si fece sempre più rara, fino a scomparire del tutto — iniziando dalle cartoline di Natale.
Avevo ancora una settimana di ferie da finire. La decisione fu improvvisa: partire per Parigi, ritrovare qualcosa del passato, qualcosa che mi facesse star bene. Qualcosa che non avevo più avuto, e che rimpiangevo.
Dopo il mio ritorno da Parigi, tre anni prima, molte cose erano cambiate nella mia famiglia. La spensieratezza, la felicità, e tanto altro erano spariti in qualche meandro oscuro tramato dal destino. Fu allora che mi accorsi, nella mia solitudine, che mi mancava. Mi mancavano quegli anni leggeri, quelle vacanze nella città luminosa, romantica, divertente. Mi mancavano quei ragazzi. Mi mancava Louis.
Mi svegliai presto il mattino successivo al mio arrivo. Avevo trovato un bell’albergo nei pressi di Avenue Marceau. Volevo il meglio, volevo godermi quei giorni prima di tornare alla mia vita.
Mi affacciai alla finestra: davanti a me, la Tour Eiffel si stagliava in tutta la sua bellezza. Il cielo era di un azzurro chiaro, i palazzi color avorio dai tetti grigi incorniciavano quel paesaggio. Più tardi, ero già tra la folla. Guardavo i volti delle persone come se cercassi qualcuno. Osservavo le vetrine, gli alberi che ombreggiavano dal sole caldo di quel maggio luminoso, come solo Parigi sa offrire.
Arrivai fino al Pont de l’Alma. Era quasi ora di pranzo. Mi fermai a metà per guardare la Senna e i battelli che la solcavano. Mi venne in mente quel giorno in cui Louis mi confessò la sua partenza per l’America. Una tristezza improvvisa mi assalì. Quasi corsi dall’altra parte del ponte. Mi ritrovai in Rue de l’Université, davanti a un bar. Avevo sete e fame. Entrai.
Seduto a un tavolino, gustavo un pranzo leggero, guardando la folla dalla vetrina. Una voce alle spalle mi fece trasalire:
— Il est incroyable, je ne peux pas y croire, mais… Jean Paul!
Rimasi con il pane a metà tra la bocca e il piatto. Mi voltai di scatto. Didier era davanti a me, in piedi, allibito.
— Mon Dieu, quanto tempo, caro amico…
Mi alzai. Didier mi abbracciò talmente forte che sentii quasi le costole incrinarsi. Era un rugbista, e ovviamente poco conscio della sua forza.
Era incredibile. Un segno del destino. Il primo ricordo del passato che si faceva vivo durante quella vacanza. Eravamo strabiliati. Lui era cambiato: barbetta biondiccia, tratti più adulti, capelli lunghi e ricci, ma lo stesso sorriso da bambino.
Ci raccontammo tutto quello che ci era accaduto in quei tre anni. Si scusò per il silenzio — viaggiava spesso con la squadra, gli allenamenti lo occupavano. Ma mi aveva sempre pensato. Dissi lo stesso, tralasciando le cose spiacevoli capitate a me.
Mi disse che aveva tutta la giornata libera e voleva dedicarla a me. Accettai.
La sera, finimmo a casa sua, dove viveva con sua madre, una signora simpatica di origini fiamminghe. Cenammo sul terrazzo, tra fiori, azulejos e vasi in coccio.
Dopo cena, prima di riaccompagnarmi in albergo, in camera sua iniziò a raccontarmi di tutti gli altri. Seppi della scomparsa di Marcel in un incidente. Che dispiacere. Seppi del trasferimento di Nadine a Saint-Étienne, del matrimonio di Robert. Poi, silenzio.
Sapeva che volevo parlare di Louis. Avevo un brutto presentimento. Ma il suo sorriso mi fece tirare un sospiro di sollievo.
— Louis vive in Australia ora. Suo padre ha avuto un incarico speciale a Perth. Si sono trasferiti lì otto mesi fa. L’avevo incontrato qui poco prima, ma come al solito… non ci siamo scambiati i recapiti. Capisci? Odio gli addii.
Lo sapevo. Era per quello che, il giorno della mia partenza, tre anni prima, non si fece vedere. Mi mandò i saluti tramite Robert.
— Mi aveva chiesto di te, ma non seppi dargli l’indirizzo. Perdonami, Jean. Mi dispiace… — Non fa nulla, — gli risposi. — L’importante è che stia bene. E magari, un domani… chissà. Forse ci ritroveremo tutti quanti.
Il suo volto si rabbuiò. Didier era troppo sensibile. Riviveva, ad ogni addio, il trauma dell’abbandono del padre. Sentiva il distacco come un rifiuto.
Non continuai. Si alzò improvvisamente. Da un cassetto della scrivania prese una lettera.
— Tieni. È per te. Me l’aveva data Louis l’ultima volta. Mi disse: “Se un giorno incontrerai Jean, dagli questa.” Quasi se lo sentiva, quel testone. Tieni. È tua. Leggila da solo, in albergo.
La busta era color avorio. Sopra, in blu: Pour mon ami JP. Sentii le lacrime agli occhi.
Dopo aver salutato sua madre, madame De Claudet, Didier mi riaccompagnò in auto fino all’hotel.
— Jean, mi dispiace. Domani parto per Lille. Ho gli allenamenti per la fine del campionato. Starò via una settimana… — Non importa, — gli dissi. Ci abbracciammo forte. Mi prese la mano, come non volesse lasciarmi andare. Lo guardai. Nei suoi occhi, tutta la sua solitudine.
— Cerca la tua felicità, — gli dissi, scendendo dall’auto. — Lo farò, te lo prometto. È ora anche per me. Ciao, caro amico mio…
Fu l’ultima volta che lo vidi.
La Tour Eiffel si stagliava illuminata davanti ai miei occhi. Seduto sul terrazzino della mia camera, rigiravo la busta che mi aveva lasciato Louis. Avevo paura ad aprirla. Non ne capivo il perché.
Poi, sentii un profumo di fiori dal balcone accanto. La aprii.
Lessi quelle parole scritte in cinque pagine. Parole fitte. Ogni lettera si scolpiva nella mente e nel cuore. Quando finii, mi accorsi di piangere. Appoggiai la testa sul tavolino. Mi sfogai.
La settimana passò in fretta. Decisi di fare solo il turista. Avevo capito che il passato dovevo lasciarlo andare. Rilegarlo in una parte del cuore e della mente.
Quando, finita la vacanza, partii per l’Italia, dall’aereo vidi la grande città dall’alto. Sentii nell’anima che quella era l’ultima volta. Sentii che l’avrei rivista dopo tantissimi anni. Ma non avrei rivisto più le persone che in quegli anni fecero parte della mia vita.
E così fu.
Eravamo lì. E forse lo siamo ancora.
Giampaolo Daccò Scaglione
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