domenica 23 novembre 2025

ALLA FINE DEL BOSCO


 “Entro nel bosco, tra luce e ombra. La soglia invisibile mi chiama, e il mistero mi custodisce.

Alla fine del bosco 

Piccoli fasci di luce chiara filtravano tra le intense fronde e i lunghi rami di quella macchia verde scuro. I raggi scendevano obliquamente da un punto nel cielo fino a colpire i tronchi resinosi e bruni che celavano la visuale sui fianchi del sentiero. Un silenzio ovattato, interrotto solo da strani cinguettii, avvolgeva tutto intorno, mentre piccoli cespugli di bacche delimitavano il confine tra la foresta e la via erbosa che conduceva verso mete lontane.

Azavan, il biondo ragazzo chiuso nel caldo mantello di lana cotta del colore del mare, procedeva in quella boscaglia verso una meta sconosciuta, richiamato da una forza misteriosa a cui non sapeva dare un nome. Non conosceva il perché si sentisse obbligato a percorrere quel tragitto oscuro, né riusciva a capirne il significato. Vedeva solo i grandi alberi e i loro rami che formavano un arco sopra la sua testa, mentre raggi dorati provenivano da un sole lontano.

Sapeva solo della sua crisi mistica: non riusciva più a credere nella sua religione, nei suoi dogmi, nei suoi miracoli, né nelle figure e nelle parole di chi la rappresentava. Pensava a tutto questo mentre si vestiva nella sua stanza calda, e credeva che forse una passeggiata nel bosco vicino potesse dare ordine ai suoi pensieri. Eppure da giorni sentiva un richiamo misterioso provenire da quel luogo in cui non si era mai avventurato. Fu così che si ritrovò in quello strano posto, dove oltre al silenzio si percepiva un’atmosfera arcana.

Un nugolo di farfalle colorate apparve all’improvviso davanti a lui e, come in una danza angelica, ruotarono attorno alla sua figura per pochi secondi, poi volarono veloci tra i fitti alberi. Più avanti, sul sentiero, vide un uomo vestito di viola, con un mantello purpureo, seduto su una staccionata che bloccava il passaggio. Azavan pensò subito a un cavaliere che si riposava, ma non vedeva alcun destriero. Il volto dell’uomo, sempre più nitido nell’avvicinarsi, gli sembrava dolce e familiare.

L’uomo sorrise al saluto educato del ragazzo, che nel suo intimo provava timore. Subito dopo Azavan sentì un calore nel cuore che dissolse ogni tensione. Si accorse del rumore di acque che scorrevano veloci e, volgendo lo sguardo a destra, vide che al posto degli alberi c’era un grande fiume blu, delimitato dalla staccionata.

Al di là del fiume, un’immensa e bellissima città illuminata da una luce rosa-dorata. Da lì proveniva una musica dolce e allegra. Azavan scorgeva case dalle forme mai viste prima e una grande scalinata che partiva dalla riva fino ai tetti brillanti come cristalli.

Alle spalle dell’uomo apparvero decine di templi di ogni religione: minareti, campanili, chiese ortodosse, cattoliche, gotiche, protestanti, sinagoghe, templi arabi e indiani, statue animiste. Tutti vuoti, abbandonati, avvolti da liane e fronde contorte.

Azavan stava per parlare, ma l’uomo dagli occhi buoni e severi disse: — “Ti aspettavo da tempo. Quella città di luce è la casa di tutti, dove si giunge al termine della propria missione. I templi che vedi sono simboli creati dagli uomini: a volte hanno fatto bene, altre volte male. Ma non appartengono a quella città immensa piena di amore. Un mio figlio disse che il tempio di Dio è nei vostri cuori. Guardati dentro: lì troverai le risposte.”

Azavan sentì le lacrime scendere sulle guance, ma il sorriso illuminava il cuore dell’uomo. Quando allungò la mano per toccarlo, l’altro indietreggiò emanando una polvere d’oro dal mantello e disse: — “Questo non puoi farlo. Ma se lo vorrai, sentirai il mio abbraccio e il mio amore in ogni momento.”

All’improvviso Azavan aprì gli occhi e si ritrovò nel suo letto, mentre il gallo cantava nel cortile. Si chiese se fosse stato un sogno o una realtà magica. Guardando la sua mano destra, vide della polvere d’oro. E allora capì.

Giampaolo Daccò Scaglione

venerdì 21 novembre 2025

IL DOLORE DEI POVERI

“Chi piange in silenzio, porta il peso del mondo. Chi ascolta con il cuore, accende una luce nella notte.”

Il dolore dei poveri

Questa frase “Il dolore dei poveri” mi è rimasta impressa nella mente da qualche giorno, da quando una signora che conosco da tanto tempo mi disse: “I ricchi non conoscono il dolore dei poveri.”

Una frase davvero toccante, a cui non ho saputo rispondere se non con un abbraccio e queste parole: “Ma non sanno quanto amore c’è nel cuore dei poveri.”

Vorrei raccontarne la storia per far capire quanta miseria umana c’è in giro, quante persone ricche, molto ricche, possano essere di una meschinità e cattiveria immane, mentre persone umili o povere, di ceto sociale inferiore e straniere, possano avere una levatura del cuore e della mente suprema, con una dignità incredibile. Ovviamente cambierò i nomi e alcune situazioni per non far riconoscere i protagonisti della vicenda: non sarebbe giusto. Ma vorrei far comprendere a chi leggerà questo racconto quanto squallore e arroganza ci siano intorno a noi, soprattutto nel nostro piccolo.

Due giorni fa ho visto Rosario in un angolo del palazzo piangere. Rosario è una signora straniera, dal forte accento spagnolo, che con la sua famiglia da più di trent’anni vive e lavora in Italia. Una persona dal cuore immenso, di un’onestà e bravura indescrivibile. Sempre dolce, sorridente, pronta a una buona parola anche nei momenti difficili, suoi o degli altri.

Mi sono avvicinato e le ho messo la mano sulla spalla: — “Che succede, Rosario?” — ho chiesto preoccupato.

Mi ha guardato con quegli occhi scuri e buoni, restando un attimo in silenzio, poi disse: — “È accaduta una cosa tremenda, Paolo. Mia nipote di trentacinque anni è caduta dal motorino mentre tornava dal lavoro ed è morta, picchiando la testa sull’asfalto…”

Istintivamente le diedi un abbraccio. — “Ha lasciato qui due bambini, una di un anno e uno di dodici…”

Che dolore, che tristezza negli occhi di Rosario. Ho cercato di trovare parole di consolazione e siamo andati a bere un caffè: volevo farle compagnia, anche solo per poco, per non farla sentire sola.

Sentivo dentro di me che c’era dell’altro. Non era solo il dolore per la morte di una persona cara: forse nascondeva qualcosa di più. Nella mia vita ho imparato a guardare negli occhi le persone, ad ascoltare le loro parole e soprattutto ad andare oltre ciò che si vede nello sguardo e nelle frasi dette.

Appena usciti dal bar e rimasti soli, la guardai negli occhi e le chiesi, vista la confidenza che ci accomuna da anni: — “C’è qualcos’altro, vero?”

Abbassando gli occhi, rispose: — “Sì… Sono molto addolorata per un’altra cosa…”

Intuii il motivo e ne avevo il timore. — “Ho chiesto alla mia signora un permesso per il funerale e…” — la voce le si ruppe per un attimo — “Le ho detto se potevo prendere mezza giornata. Mi ha chiesto il perché e le risposi: per andare al funerale di mia nipote. Mi ha guardato fredda e mi ha detto: La conosco?No signora, non è mai venuta qui. Allora, girandomi le spalle, mi ha risposto: E che sarà mai! Io ho bisogno di lei, potrebbe anche non andare. Anche una mia conoscente ha perso la figlia cadendo dalla moto e io non ci sono andata al funerale.

Provai una rabbia che cercai di non mostrare, anche se la mia voce tradiva durezza. — “E tu che le hai risposto?” — chiesi, pensando che se fossi stato al suo posto l’avrei affrontata con forza.

— “Niente… Ho insistito, così mi ha dato il permesso, ma facendomi sostituire da uno dei miei figli. Non ho potuto fare altro.”

Le toccai la mano in segno di conforto. — “Ora vado a lavorare, mi aspetta e non vorrei si arrabbiasse.”

Staccandosi dalla mia mano, prese piano la strada per le scale. Si fermò un attimo davanti alla porta e, girandosi verso di me, disse con voce triste: — “I ricchi non conoscono il dolore dei poveri.”

— “Ma non sanno quanto amore c’è nel cuore dei poveri.” — risposi istintivamente.

Rosario chiuse la porta dietro di sé, lasciandomi costernato e arrabbiato.

Ci sono catene che non ti permettono di essere libero, catene che da migliaia di anni rendono l’essere umano schiavo, in un modo o nell’altro, di altri esseri umani “privilegiati” e senza cuore. La dignità di Rosario e il suo dolore sommesso non hanno scalfito minimamente la durezza del cuore dell’altra persona, immersa nel proprio egocentrismo.

So che Rosario saprà superare tutti i dolori di questa vicenda, ma mi chiederò sempre il perché di tanta cattiveria umana e della mancanza di pietà verso il prossimo, soprattutto se quest’ultimo è un sottoposto, un dipendente, un disadattato, uno straniero.

Potrà anche essere consolante la frase: “Quello che si semina si raccoglie”, ma ho il sospetto che a pagare il prezzo più alto siano sempre i più deboli.

La dignità dei poveri è più forte della cattiveria dei ricchi. Il dolore diventa memoria, e la memoria diventa giustizia.”

Memoria Incisa:

Questa frase “Il dolore dei poveri” mi è rimasta impressa da quando Rosario, una donna dal cuore immenso, mi confidò la sua tristezza. La morte improvvisa della nipote, madre di due bambini, l’aveva spezzata. Ma ancora più crudele fu la freddezza della sua datrice di lavoro, incapace di concederle un permesso senza umiliarla.

Rosario, straniera da trent’anni in Italia, è sempre stata dolce, sorridente, pronta a una buona parola. Eppure il suo dolore non ha scalfito minimamente la durezza del cuore di chi la comanda. “I ricchi non conoscono il dolore dei poveri” mi disse con voce triste. Io risposi: “Ma non sanno quanto amore c’è nel cuore dei poveri.”

Ci sono catene che da millenni rendono l’essere umano schiavo di altri esseri umani “privilegiati” e senza cuore. La dignità di Rosario resta intatta, ma la cattiveria di chi non sa provare pietà è un segno indelebile della miseria umana. Eppure, anche nel dolore, i poveri custodiscono un amore che i ricchi non sapranno mai comprendere.

Giampaolo Daccò Scaglione



giovedì 20 novembre 2025

STORIA DOLCE COME UNA TAZZA DI TE'

Storia dolce come una tazza di tè

“Chi beve il tè della memoria, entra nel giardino dell’infanzia. 

Qui il tempo si ferma, e il cuore si ricorda.”

Moneglia (GE), agosto 1969 – Il tè, l’oleandro e il bacio di Elida

Un’estate calda, piena di colori e profumi. Moneglia, piccola cittadina ligure, vibrava di turisti, musica e serate di festa. Era una delle tante meravigliose vacanze degli anni Sessanta, quando bastava un motivetto allegro per iniziare una giornata speciale.

Alloggiavamo in un albergo tranquillo, immerso nel verde, vicino a una stradina che portava verso la montagna. Poco distante, un fiumiciattolo verde faceva sentire il suo gorgoglio nel silenzio dei pomeriggi assolati.

Noi, due bambini spensierati e vivaci — Elida e Giampaolo — quel pomeriggio del primo agosto non eravamo andati in spiaggia: il caldo era torrido. I nostri genitori partirono per un’escursione fino a Lemeglio, il borgo in cima alla montagna. Noi restammo con mia nonna in albergo, quasi felici di essere liberi dai rimproveri e dai doveri.

Eleganti come si usava negli anni Sessanta: Elida indossava un vestitino azzurro a fiorellini rosa, con una fascia tra i capelli neri e ballerine col fiocchetto. Io avevo una camicia di lino bianca con profili azzurri, pantaloncini celesti con cintura abbinata, sandali bianchi di pelle leggera e calzettoni ricamati.

Ci sedemmo come due fidanzatini sotto gli ombrelloni in giardino. La figlia del proprietario ci portò due tazze di tè caldo e biscottini alla crema, insieme a due bicchieri d’acqua per raffreddare quel tè speziato e profumato. Seduti su sedie in stile Liberty, sotto le palme, iniziammo le nostre conversazioni da piccoli filosofi delle vacanze estive.

Conversazioni importanti, altro che giocattoli: parlavamo di esistenza su altri pianeti e stelle, sotto gli occhi attenti e divertiti di mia nonna, che sorseggiava il suo tè all’aroma di ginepro. Quanto era bella e abbronzata, con occhi scuri e capelli nerissimi raccolti sulla nuca. Il suo sorriso bianco spiccava sul vestito verde brillante. Ci sorrideva, ma i suoi occhi tradivano malizia, amore e dolcezza.

Rideva sentendoci parlare di alieni dal corpo giallo o blu. Elida diceva che avevano capelli biondo-rossi come i miei e occhi verdi come il suo bellissimo papà. Io ero sicuro che le loro femmine fossero alte, more, con la bocca rosa come lei… Elida.

La nonna fu raggiunta dal suo fidanzato, e il loro abbraccio fece partire il mio verso la bambina di fronte a me. Rovesciai un bicchiere d’acqua, ma Elida fu più svelta: mi diede un bacio sulla guancia. — “Non ti dimenticherò mai,” mi disse. Sentii avvampare il viso, mentre un venticello tiepido ci portava il profumo dell’oleandro.

Era stata una vacanza dolce, dall’aroma di tè speziato e dal profumo di oleandro. Indimenticabile. Elida non la rividi più. So che abitava a Milano, forse in via Padova o Palmanova… Ogni tanto mi domando dove sia finita.

Ma forse è più bello ricordare quel momento come un quadro dipinto nella memoria. Per sempre.

“Il bacio resta, anche se la bambina scompare. Il profumo d’oleandro è la soglia che non si chiude.”

Giampaolo Daccò Scaglione

mercoledì 19 novembre 2025

NEL TUO CUORE NON ERA AMORE


 NEL TUO CUORE NON ERA AMORE

La neve cade leggera sulla strada del centro della grande metropoli, mentre poche persone camminavano veloci sui marciapiedi bagnati. 

La musica nella piccola ed elegante pasticceria, inondava i tre locali in stile liberty dando un'atmosfera quasi sognante. 

Poche persone erano in quel locale elegante con i camerieri in livrea bianca dai bottoni dorati, le voci gentili delle commesse che portavano dolci e caffè o cappuccini ai clienti stridevano un poco con il rumore della macchina da caffè usata dai baristi vestiti di blu scuro e dai capelli perfettamente tagliati corti. 

La signora e proprietaria del locale è alla cassa e per un piccolo istante guarda la bella donna seduta al tavolino, sola con davanti una fetta di torta ed un latte caldo, la pelliccia appoggiata su una sedia a fianco. 

I suoi capelli lunghi e biondi incorniciano un volto da ragazzina nonostante avesse trent'anni. Sentendo lo sguardo su di se, la donna si volta per un attimo verso la signora, che sorridendosi a vicenda, lei accenna con un leggero movimento di approvazione con la testa, come se tutto fosse perfetto. 

Apparentemente. 

Lei, la bellissima donna bionda è lì, davanti a lei vetrine eleganti di quella strada alla moda, sorseggiando il caldo latte ed ogni tanto si gusta un pezzo di quella torta glassata, ma i suoi occhi sono sempre rivolti verso il paesaggio fuori: ombrelli colorati, uomini e donne in giacca a vento di varie tinte, qualche taxi che passano lentamente e voci indistinte nel locale, il natale è ormai vicino. 

I suoi pensieri vagano in un non lontano passato quando con lui erano seduti allo stesso tavolo in una giornata come questa, fredda e bianca. "Sei vicino a me, ma ti sento lontano". 

Lui stava zitto, ma gli occhi chiari di lei posati sui suoi, così scuri ed intensi pungevano il suo cuore, non sapeva che dirle. "Sono sola con te da tanto tempo, lo sento... Non ho più capito se nel tuo cuore c'è ancora amore per me". 

Lui la guardava con dolore ma l'espressione del viso pareva lontana da lei anche se riusciva ad ascoltarla, dentro capiva di non amarla più, semmai l'avesse amata davvero in questi due anni, facendole perdere a lei, mesi e giorni fatti di illusioni e sogni eppure... 

Aveva sempre pensato di amarla davvero ma negli ultimi tempi il suo cuore non batteva più, anzi non aveva mai avuto per lei quel tuffo che si prova quando si ama la persona che si ha accanto. "Io... Vittoria, non so più cosa dire, non so più cosa provo... 

Mi sei vicina ed io non so spiegare al mio cuore cosa mi lega... Mi legava a te. Scusami ma..." Due lacrime invisibili a lui le scendevano sulle guance, aveva sentito mormorare qualcosa ancora, poi il silenzio. 

Aveva aspettato qualche secondo e poi si era girata dove era seduto il suo amore ma la sedia era vuota, volse lo sguardo verso l’uscita e aveva visto la signora della cassa sorriderle come dicesse “E’ tutto a posto signora, ha pagato suo marito.” 

Di lui nessuna traccia, era tornata fissare il tavolino e le loro consumazioni e vicino alla tazza un biglietto, un foglietto scritto da Pietro. Lo aveva aperto e letto, poi aveva pianto silenziosamente evitando di farsi notare. 

In strada poco più tardi, tra folate di vento gelido e gli soliti ombrelli colorati di persone che camminavano veloci per la strada aveva pensato a Pietro, ai suoi occhi, ai suoi abbracci nella loro casa che da oggi rimarrà vuota di lui. 

Si era fermata davanti ad una vetrina di un negozio di cristalleria, guardava la sua immagine riflessa ed il pensiero era andato al foglietto trovato accanto a lei in quella bella pasticceria. 

“Perdonami per non averti e saputo amare come avresti meritato. Andrò via per non farti soffrire più. Pietro - ed un fiore disegnato vicino alla firma -” 

Velocemente si era avviata verso la casa di sua madre aspettando che lui avesse portato via le sue cose dal loro appartamento, intanto la neve cadeva ancora e lei durante il tragitto si era chiesta: “Perché non sei riuscito ad amarmi? 

Mi giravo verso di te quando eri accanto ed il mio cuore insisteva a dirmi che non mi amavi. Avevo si i dubbi se mi amavi oppure no… Ma la risposta c’era già nei tuoi occhi e perché io ho accettato tutto questo? 

Ma vorrei credere ad una cosa nonostante la verità che mi avevi rivelato poco fa: non saprò se mi avrai amata un attimo oppure no in questi due anni.” 

Ora Vittoria ha finito la sua colazione, la neve fuori ha smesso di scendere, si alza, si avvicina all’uscita fermandosi per pagare il conto ed alla cassa la stessa signora di allora le sorride dolcemente mostrandole il conto. 

Prima di uscire, un uomo la stava guardando, i loro occhi si incontrano per un attimo e lui le sorride, Vittoria lo osserva per cercando di mostrare anche lei un sorriso ma subito esce da quel locale senza voltarsi. 

Nessuno potrà mai sostituire quei momenti con Pietro, quell’intimità dolce che avevano trovato in quel locale, apre l’ombrello e imbocca la strada per casa. 

“Ancora insiste il mio cuore che il suo non era amore, non saprò se mi hai amato oppure no”.

 Giampaolo Daccò Scaglione

martedì 18 novembre 2025

ERA SOLO UN SOGNO

ERA SOLO UN SOGNO

Lei è lì, dietro una colonna di un palazzo in centro a Milano, davanti al bellissimo locale dove lavora lui. Non è molto che aspetta e sa che tra poco uscirà, non appena lo vedrà si mostrerà a lui, bellissima come mai lo è stata. 

Laura era andata in crisi qualche mese prima, i figli erano cresciuti ed erano andati a studiare in due università lontane all'estero. Edoardo suo marito, con il nuovo incarico politico ormai girava il mondo intero lasciandola sola per molto tempo. 

Eppure erano, sono e saranno una coppia speciale, lei lo sa di certo, l'ha sempre saputo... Sa di amare immensamente Edoardo da quando si erano visti trent'anni prima, quando lei appena diciannovenne, aveva conosciuto tramite amici quel bel ragazzo fresco di laurea alla Bocconi, quel giovane moro dagli occhi di fuoco e la pelle scura. 

Poi il matrimonio, i due figli maschi e tanto amore tra loro, fino a quel giorno in cui lui le comunicò l'incarico avuto e sarebbe andato in viaggio per il mondo. Laura avrebbe potuto seguirlo ma non se la sentiva di lasciare il suo lavoro di donna manager con figli da sballottare da una scuola e l'altra o lasciarli soli in qualche collegio orribile. 

Così di comune accordo avevano deciso di gestire la propria coppia nel migliore modo possibile, lei sarebbe rimasta a Milano e lui in trasferta. Fin dai primi giorni di matrimonio, avevano preso l'abitudine di fare colazione o prendere un aperitivo in quel lussuoso locale nel centro di Milano. 

Non era gelosa quando le ragazze che lavoravano in quel luogo guardavano suo marito in modo strano per la sua bellezza e fascino, sapeva che Edoardo faceva girare la testa a tante ma le era sempre stato fedele e così lo era lei. 

Lui adorava Sandra, la ragazza dei pasticcini perché gli ricordava Laura nei suoi vent'anni ed era rimasto un poco deluso quando se n'era andata via per lavorare in un altro prestigioso locale poco lontano. 

Ci avevano scherzato su, ma Edoardo le fece notare quel bel giovanotto con gli stessi suoi occhi scuri che l'osservava sempre diventando rosso non appena Laura gli chiedeva un caffè od altro. 

Infatti lei, bella, alta, bionda con gli occhi blu, Laura dimostrava più di dieci anni di meno della sua vera età, Edoardo la esibiva come un gioiello e nell'intimità nonostante tutti gli anni di matrimonio, c'era ancora passione. 

Loro due erano troppo simili, uniti, complici per consentire a qualcun'altra o altro irrompere nelle loro vite. Ma come sempre il destino a volte tende delle trappole invisibili. Suo marito era lontano da troppo tempo, si sentivano due volte al giorno ma Laura era sola, troppo sola. 

Quando Edoardo tornava a casa era sempre notte fonda oppure lei era al lavoro, Laura incominciava ad essere in crisi: lasciare il suo lavoro e seguirlo oppure accettare una situazione che si stava trascinando da almeno cinque anni? 

Era arrivata la fine della primavera e lei aveva preso delle settimane di riposo e non passava giorno che da sola o con qualche amica, facesse colazione nel locale dove c'era quel ragazzo appena trentenne, il ragazzo dagli occhi di fuoco come suo marito. 

Non si era accorta che col tempo quegli occhi la stavano trascinando in un sogno impossibile: lui sembrava più spavaldo con lei, un cioccolatino donato in più, un sorriso dolce, una battuta, la sua calda mano che la sfiora mentre lei prende la tazza del suo caffè. 

Ormai era evidente, per Laura, che tra loro era scattato qualcosa, quel qualcosa che lei aveva rifiutato con la mente e col cuore ma... Questa mattina lui le aveva sussurrato tra decine di clienti, che faceva il doppio turno e purtroppo finiva alle venti il lavoro e le aveva strizzato l'occhio sorridendo. 

Era diventata rossa come una liceale a quel gesto. Quando lei stava per uscire lui l'aveva salutata per nome "Ciao Laura..." lasciando in sospeso qualcosa, non più il solito arrivederci signora Laura.

Dalla vetrina, fuori lei aveva guardato all'interno, lui Mirko l'aveva osservata mandandole un bacio a fior di labbra. Si era ritrovata in ufficio trafelata e spaventata, aveva sussultato quando il telefono aveva squillato: "Cara..." era Edoardo dall'altro capo "Purtroppo tornerò a Milano domenica, non ce la faccio domani, mi dispiace lasciarti sola ancora qualche giorno..." 

Prima di salutarsi lei gli aveva detto qualcosa come "Non ti preoccupare amore, Luca torna da Londra sabato, starò con nostro figlio e ti aspetteremo." mentre la sua testa era in fiamme ed il pensiero verso Mirko. 

Era stato un invito quello di Mirko? Perché Edoardo non tornava domani? Perché ora si sentiva sola da mettersi a piangere? Cosa le stava succedendo? 

E così nel tardo pomeriggio aveva preso la sua decisione: avrebbe aspettato Mirko fuori dal locale, era stata più forte di lei la sua delusione, rabbia con se stessa e contro suo marito. Qualcosa mai accaduto in trent'anni. 

Si era preparata con cura e davanti allo specchio c'era ora una bella ragazza dai capelli biondi ondulati, un velo di trucco per risaltare gli occhi blu, il vestito azzurro che le donava un tono luminoso della pelle, il tacco alto, il rossetto rosa carne che la rendeva molto giovane nell'aspetto, non si sarebbero accorti della differenza di età chi li avrebbe guardati. 

Sapeva, lo sapeva che stava sbagliando tutto e che forse Mirko non le aveva fatto capire ciò che stava rimuginando da tutto il giorno. Ci aveva pensato durante il tragitto a piedi da casa fino al locale, dove per strada molti uomini si giravano a guardarla, splendida nel tramonto. 

Ecco ora Laura è lì nascosta dietro ad una colonna poco lontano, nessuno dovrebbe averla vista e per Mirko forse una piacevole sorpresa. Dopo pochi minuti vede Mirko salutare all'interno i colleghi ed esce vestito elegantemente, lei prova un tuffo al cuore e mentre sta per attraversare la strada verso lui, ecco che da un'auto parcheggiata davanti scende una bellissima ragazza dai capelli lunghi e neri. 

Mirko le si fa incontro l'abbraccia e la bacia sulla bocca ed in quell'istante alza gli occhi e la vede. Vede Laura impietrita, bellissima sul marciapiede opposto, si sente sbiancare ed il cuore battere forte. 

Non sa neanche lui come ha fatto ad inventare una scusa alla sua ragazza che sale in auto ad aspettarlo, mentre vede Laura fuggire verso piazza Meda. La rincorre tra la folla stupita, riesce a raggiungerla in un attimo e fermarla con una mano sul braccio. "Laura..." 

Lei esausta si gira verso di lui con le lacrime sul volto. "Scusa, scusami Mirko sono un'idiota... Ho pensato che.... Non dovevi vedermi e non dovevo essere lì, ma..." Le chiude la bocca con due dita "Non dire niente Laura, io non so cosa sia successo... Il perché sei qui ora..." 

Lei lo guarda triste con gli occhi blu pieni di lacrime... "Lasciami andare a casa, lascia andare via questa stupida..." "Dio mio ho capito! E' per questa mattina..." gli occhi di lui si abbassano e le mani lasciano le braccia della donna ma tutti e due restano lì fermi in piedi. 

Mirko ritrova il coraggio per parlare anche se ha fretta di tornare dall'altra. "Laura ti avevo visto triste già da tempo, sentivo che lo eri per via di tuo marito sempre lontano, ne avevamo parlato ricordi? Allora ho provato il desiderio di farti sentire desiderata, bella, unica.. Lo sei davvero, so che non avrei dovuto farlo... Lo stup..." 

Non ha terminato la frase si è accorto solo in quell'istante che Laura non era più davanti a lui inghiottita dalla folla e dalla sua vergogna, si sente un verme ma non l'aveva ingannata questa mattina, aveva voluto farla sentire bene. 

I suoi passi risuonano come martellate sotto i portici mentre raggiunge l'auto della sua ragazza, sale e lei lo bacia sulla bocca con passione. Poi l'auto parte nel traffico intenso di quel martedì sera milanese. 

La radio sveglia segna mezzanotte nel buio in camera, mentre Laura aveva appena finito di piangere e di darsi della sciocca tardona che voleva un'avventura con un ragazzo e di essersi sentita in colpa verso Edoardo, "Stupida, stupida, stupida, con uno che potrebbe essere tuo figlio quasi e lui era stato solo carino con te. Stupida!" 

Piano prende il suo cellulare. "Amore stavi dormendo?" la voce calma di suo marito quasi la fa sobbalzare. "No caro, mi ero solo appisolata un attimo in attesa della tua telefonata." "Tesoro spero non sia stata una giornata pesante per te oggi. 

Io ho quasi finito il lavoro e ..." "Pesante? No non è stata pesante, solo un poco triste senza di te..." lo interrompe pensando - stupida sono una stupida - "Capisco amore, ora ti lascio dormire, sono stanco anche io, sono appena andato a letto e ho bisogno di riposare. 

Ti adoro mia Laura..." "Anche io tesoro, ma hai una voce strana,.. Non c'è nulla dici? Va bene Edoardo, aspetto domenica quando torni. Ti amo a presto." Appoggia il telefono sul letto accanto a lei e voltandosi sul fianco riprende a piangere. 

La guglia della Madonnina del Duomo si staglia dalla finestra dell'albergo in Piazza della Repubblica mentre Sandra sta uscendo dal bagno di quella bella camera d'albergo, Edoardo è in piedi davanti alla finestra. 

Lei lo abbraccia forte. "E' l'ultima volta che ci incontriamo Sandra, io non me la sento più... Continuo a vedere gli occhi di Laura ogni volta ed ogni volta è un colpo al cuore." Si gira verso di lei che sorride "Sapevamo entrambi che la nostra storia sarebbe stata solo una piacevole avventura fino a che uno di noi avrebbe deciso di smettere... Lo avevamo stabilito." 

Lui la guarda, è così bella fin da quel giorno che l'aveva vista nel locale dove con Laura facevano colazione e si erano incontrati a Roma per caso dopo che lei se n'era andata via da quel locale. 

Da quel momento nonostante Sandra fosse fidanzata e prossima a sposarsi, avevano preso a frequentarsi quando lui era in Italia facendo credere a sua moglie il contrario. "Abbiamo... Ho sbagliato tutto... Forse farei bene a tornare a casa ora, fingendo di farle una sorpresa." 

Si abbassa ed abbraccia le gambe della ragazza "Scusami Sandra, un vero uomo non si comporta così, non ti lascia sola in questa camera in piena notte per tornare dalla moglie con i sensi di colpa... Sono un..." "Zitto!" dice lei mettendogli le dita sulla bocca "Sei un tesoro e lo sarai sempre anche se mi dispiace che sia finita, ma credo sia giusto così ho sbagliato troppo anche io, torneremo insieme a... - Milano - subito. 

Sarai per tutta la vita dentro di me Edoardo, sono stata bene, anche troppo". Laura ora seduta sul divano del soggiorno sente l'ascensore fermarsi sul suo piano unico, subito dopo il campanello di casa suona e mentre lei si avvicina sente Edoardo che la chiama, un colpo al cuore e corre ad aprirgli. 

Fuori dalle vetrate di quell'attico, una luna bianca illumina Milano dall'alto, mentre sulle strade in basso migliaia di luci rosse e gialle corrono per le strade della metropoli.

 Giampaolo Daccò Scaglione

lunedì 17 novembre 2025

“SE UN GIORNO TI SENTIRAI TRISTE…”

 “Oggi ho visto me stesso da bambino. E non ho avuto paura. Ho avuto tenerezza. Ho avuto pietà di me, e non mi sono perso. Non ero solo. Ero in attesa. Ho avuto forza, e non ho dimenticato. Ora scrivo, perché la mia storia merita di essere raccontata, e ora, finalmente, qualcuno mi ascolterà.”


Questa è una storia vera. Una fiaba di memoria, forza e trasformazione. L’ho scritta per chi, almeno una volta, si è sentito troppo sensibile, troppo fragile, troppo solo. Ma ha scelto di non piegarsi. Se un giorno ti sentirai triste, questa pagina è per te. Il lapislazzulo è anche tuo.

SE UN GIORNO TI SENTIRAI TRISTE…

Quel giorno, seduto sui gradini della nonna Vittoria, pensavo che il mondo fosse troppo grande per me. Ma i fiori mi guardavano come se fossi il loro re.

Avevo un sassolino blu che tenevo in tasca. Era il mio talismano contro la tristezza.

Oggi, nella mia tasca, ho un lapislazzulo al posto del sassolino. È il mio talismano. E come allora, l’ho toccato con le dita per farmi forza. Non c’era nessuno intorno, ma i fiori mi guardavano ancora. Forse non sono cambiato tanto: ho solo imparato a chiamare la tristezza con il suo vero nome.

Il tempo non ha cancellato il gesto, ha solo cambiato la pietra. Ma il cuore è lo stesso: cerca forza, e trova bellezza.

Oggi ho subito un’azione molto dolorosa, un evento che mi ha fatto male al cuore. Ma a differenza di un tempo, in cui la mia sensibilità era più vulnerabile, ho avuto una strana reazione: l’ho accolta.

Sì, l’ho accolta come un segno del destino. Il mio io interiore non mi ha permesso di piangere o arrabbiarmi. Ho capito che era inutile soffrire. Avendo sofferto troppo, ho deciso che tutto questo si trasformasse in polvere.

E come la polvere sollevata dal vento, è tornato in mente quel ricordo di bambino, che aveva quel piccolo sasso azzurro nella tasca come portafortuna. Come ora tengo un lapislazzulo blu con venature dorate, in tasca come protezione rituale.

Nonna Vittoria era apparsa sulla soglia della porta di quella vecchia casa di paese, con i fiori che la circondavano. Io, seduto sui gradini, con le mani sotto il mento e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, cercavo di ricacciare indietro le lacrime.

Mi porse un panino con burro e marmellata come colazione, mentre nel cielo azzurro volavano delle colombe. Mi accarezzò la testa e si sedette vicino a me.

— Lo so, caro. A volte qualcuno ci fa del male, e il dolore è più forte se lo fa una persona che dovrebbe amarti…

Non risposi. Presi il panino e lo tenevo in mano, senza decidermi se addentarlo, anche se avevo un po’ di fame.

— Non vuoi rispondere, e capisco. Però lo sai che sei un bambino vivace e intelligente. Ma hai un pregio che potrà essere un difetto quando sarai grande.

Incuriosito, girai il faccino guardandola negli occhi, così uguali ai miei.

— Sei troppo sensibile e troppo emotivo.

Stavo per rispondere, ma lei, guardando in avanti, riconoscendo se stessa, continuò:

— Sai? Non sarà facile per te, e anche per altri bimbi come te. Dovrai imparare, a volte, a non mostrarti troppo. I colpi che ti colpiranno dalle persone che si chiamano invidia, cattiveria, ignoranza, possono farti soffrire molto. Ricorda che ci siamo sempre noi per starti vicino. Non devi avere paura.

— Non ho paura, nonna. Ma oggi quelle parole mi hanno fatto piangere. -

Nonna mi strinse a sé, e restammo in silenzio a guardare il cielo, il prato nel cortile, il pozzo al centro, e una vicina che ci faceva cenno di saluto dalla finestra di fronte.

— Paolino, c’è una frase forse complicata per te, ma te la voglio dire e spiegarti il significato, perché riguarda quello che è successo oggi… -

Non ero abituato a interrompere gli adulti, ma guardando nonna in viso, le feci segno verso i fiori poco lontano. Alcuni erano piegati dal vento del mattino, altri erano in piedi, e uno, di colore arancio intenso, era spezzato in mezzo agli altri.

— Nonna, scusami… ma perché quel fiore si è spezzato mentre gli altri si sono piegati? È perché era il più debole?

Nonna rise, mi accarezzò la faccia, e continuò il suo discorso senza rimproverarmi.

— No, era il più forte. O meglio… era.

— Era il più forte e si è spezzato?

— Paolino tesoro, la frase che volevo dirti prima era questa: “Mi spezzo ma non mi piego.” Sai che vuol dire?

Negai con un movimento della testa.

— È un modo di dire per dare forza alle persone sensibili come te, a chi non deve sottomettersi alle persone cattive o al destino che spesso è crudele.

— Crudele? Cattivo? Vuoi dire come le cose che ti sono capitate a te anni fa, nonna?

Rimase basita. Non si aspettava che un bambino di sette anni le rispondesse così, facendole tornare alla mente e al cuore il suo passato doloroso.

Non ero sicuro se si fosse asciugata una lacrima o si fosse sistemata un capello uscito dallo chignon.

— Come posso rispondere a un bambino troppo avanti come lo sei tu? Sì, hai ragione. Come il destino che mi ha fatto vivere quelle cose brutte che conosci. Ed è per quello che ti ho detto quella frase…

Rimase in silenzio. Si sentiva una cicala frinire. Io, in silenzio.

Riprese stringendomi a sé, mentre avevo iniziato a mangiare il panino.

— Si dice che è meglio spezzarsi che piegarsi. Se una persona si piega al volere degli altri, alla loro prepotenza, alla loro cattiveria, oppure se ti capita qualcosa di brutto, non dovrai mai — e dico mai, se non in casi impossibili — piegarti e abbassare la testa. È come un soldato che accetta una sconfitta e non fa niente per combattere, per vincere, o almeno tentare. Capisci, caro?

— Penso di sì. Non devo diventare triste e non dire nulla se qualcuno mi insulta, oppure mi fa un torto. O se, come dici tu, il destino mi fa perdere la bicicletta che mi hai regalato, magari rubata… io devo… devo…

— Reagire, intendi?

— Sì, nonna. Reagirei, anche se non so come. Magari mi verrà al momento.

— Giusto, tesoro. Ma non dovrai mai essere cattivo o reagire con violenza come risposta.

Avevo annuito. Compresi il significato, anche se — ricordo bene — non avrei mai saputo come si fa a reagire. Ma il fatto di averlo capito aveva fatto felice nonna.

Il fiore davanti a me aveva preferito spezzarsi, morire piuttosto che piegarsi al vento cattivo del mattino. Gli altri fiori, insieme, si erano piegati per non rompersi, cercando di vivere. Ormai erano tutti storti e uniti, come pecore che ubbidiscono solo al pastore.

Avevo dato un bacio a nonna e scappai in casa a bere. Lei si era girata a guardarmi. I suoi occhi erano un po’ tristi. Sono sicuro ora che quegli occhi, simili ai miei, avrebbero voluto dirmi:

“Non piegarti mai, tesoro. Ti faranno del male, ma ho paura che la tua sensibilità non riuscirà a difenderti da tutto questo.”

Alzandosi, mi aveva raggiunto vicino al tavolo.

Eccomi qui, ora, con il lapislazzulo in mano. Penso al bimbo di allora. Ricordo che, dopo il discorso della nonna, avevo pensato al fiore che si era spezzato. Aveva finito la sua vita, ma non si era piegato al vento cattivo.

Ero ingenuo, ma non sciocco. Avevo guardato gli altri fiori, con i petali rivolti verso la terra. Facevano pena. Avevo capito che non avrei mai voluto essere come loro, un domani.

“I fiori non mi facevano domande. Mi guardavano e basta. Come se sapessero che quel silenzio era tutto ciò che potevo sopportare. Ma io non sarò mai come loro.”

Guardo la mia pietra blu nella mano. La sento quasi vibrare tra le dita. Pensando a ciò che è capitato oggi, mi viene in mente un pensiero:

“Oggi, toccando il lapislazzulo, ho fatto lo stesso gesto di allora. Ma stavolta, non per nascondermi. Per ricordarmi che sono ancora qui.”

Sorrido a me stesso. Scaccio il pensiero di quella cosa negativa di oggi e mi dico ad alta voce:

“Mi piego, ma non mi spezzo.”

Dedica:

“Non ho mai raccontato questa storia. Non perché non fosse importante, ma perché non sapevo se qualcuno avrebbe ascoltato. Ora so che sì.”

Giampaolo Daccò Scaglione

venerdì 14 novembre 2025

SENZA CUORE, SENZA AMORE, SENZA STELLE: Una testimonianza vera di bullismo, dolore e rinascita


 

Introduzione al racconto:

Oggi si parla di bullismo e mobbing con maggiore apertura. Se ne discute, si cerca di agire. Ma non è mai abbastanza. Quando lo si subisce da adulti, si può almeno cercare aiuto. Da bambini, invece, è diverso: subentra la paura, l’orrore, l’incapacità di comprendere. E dentro, nel proprio io, un ragazzino o una ragazzina comincia a pensare di essere sbagliato. Non capisce che la colpa è degli altri.

L’accanimento nasce dalla cattiveria, dal senso di superiorità, dalla percezione di una diversità — qualunque essa sia. Chi lo ha subito se lo porta dietro per tutta la vita: lo vince, lo rimuove, lo nasconde… oppure lo subisce ancora, generando paure, silenzi, e a volte il desiderio di non esistere più.

In alcuni casi, quel pensiero è diventato l’unica — sbagliata e non capita — soluzione possibile.

Perché scrivo tutto questo? Perché ho letto poco fa la storia vera di una bambina vessata da persone orribili. Ora è adulta, ma paga ancora le conseguenze di quell’odio. Nei suoi pensieri c’è ancora la voglia di morire.

La storia che racconterò ora è vera. È mia. Alcuni diranno: “Ma quante cose gli sono capitate?” Io rispondo solo questo: ognuno di noi vive esperienze che nessun altro potrà mai vivere allo stesso modo. Possono essere simili, ma mai identiche. Soprattutto, mai vissute psicologicamente in maniera uguale.

Non metterò in discussione il come, il perché, o chi ha contribuito a ciò che è accaduto. Voglio solo far capire a chi sta vivendo qualcosa di simile — anche se diverso — che con forza, abnegazione e coraggio, si può almeno vincere in parte. Si può ritrovare se stessi. Si può riconquistare quella serenità che ci è stata rubata.

Raccontare tutto questo non è facile per me. La decisione di farlo è stata lunga e tormentata. Ma ora sento che è giusto. E forse, può essere un aiuto per chi non ce la fa più a sopportare il male che gli viene fatto. Soprattutto se è giovanissimo.

 SENZA CUORE

SENZA AMORE

SENZA STELLE


Di nascosto dietro alla porta della mia cameretta sentire la voce di tuo padre che dice: "Non vado a seguire quello di là (cioè io) alle gare di quello sport da femminucce." mentre stavo preparando la mia borsa con la divisa della mia squadra, era stato davvero doloroso, avevo ricacciato le lacrime in gola piuttosto che farmi vedere piangere.

"Fare atletica e corpo libero non è da femminucce..." gli aveva risposto arrabbiata mia madre mentre stava dando la pappa alla mia sorellina nel seggiolone "Ci sarei andata anche io ma con la piccola come faccio?"

Era stata quella frase detta dall'uomo che mi ha generato a farmi capire quando non si è accettati e da quel momento avevo ripensato a ciò che mi aveva fatto subire fin da piccolo, fin da quando avevo avuto i primi ricordi. 
Mi domandavo, mentre cercavo di dare il massimo dell'impegno nella gara, arrivando a prendere una modesta medaglia di bronzo, se tuo padre non ti vuole, ti detesta solo perché sei nato ed in quel momento non ti voleva, non ti ama, chi altro avrebbe potuto amarti?

Cercavo nelle tribune qualcuno dei miei ma c'erano solo i genitori e parenti degli altri ragazzi, dei miei amici che gareggiavano con me e mi sentivo solo, ma poi avevo deciso di concentrarmi su quello che stavo facendo.

Più tardi ero tornato a casa con due amichetti: Marco e Pierfrancesco, una volta entrato nel nostro appartamento, solo la mamma mi aveva chiesto com'era andata e tutto finì lì, sotto lo sguardo gelido dell'uomo seduto sulla poltrona con in mano un quotidiano.

A scuola era una tragedia che pochi ricordano o meglio, molti fingono di non ricordarsi, la colpa? Solo per il fatto di avere avuto un aspetto dolce, un bel bambino un po' strano che invece di giocare al pallone, a fare la lotta, diventare cow boy o indiano preferiva leggere, dipingere, girare in bicicletta e peggio ancora cantare nel coro dell'oratorio. 

Le vessazioni subite erano all'ordine del giorno, ricordo i nomi di quelli che mi facevano dispetti, insulti, fino ad arrivare alle mani... 
"La difesa è l'unica cosa che può farti vincere, non permetterlo a nessuno di piegarti... Se la parola non vince, vince la mano.." diceva mia nonna materna e presi in parola tutto.

Tornavo a casa con il labbro gonfio per un calcio, oppure un occhio pesto per un pugno, la maestra a volte interveniva quando vedeva i litigi nel cortile della scuola Morzenti, ma più spesso succedeva fuori dall'orario di scuola o in giro per strada, dove incontravo per caso le solite piccole bande di ragazzini asociali.

Da mio padre nessuna difesa o commento, dalla mamma si... Certo avevo amici e soprattutto molte amiche con cui mi trovavo bene ma spesso dovevo fare strade secondarie per non farmi vedere per la paura di trovare la solita banda e da solo contro loro, non ce l'avrei mai fatta.

Le parolacce più divertenti al mio indirizzo erano "Faccia da culo" (ovvio mica avevo il viso di terminator e poi non giocavo al pallone quindi davano per scontato chissà cosa, a otto o nove anni???), oppure nel gruppo di ricerche scolastiche, il "maschiaccio", il "figo" della classe o dei giochi in strada diceva sempre "Io quello non ce lo voglio vicino"... 
Gli altri insulti li lascio alla vostra immaginazione, esagerando pure.

Un giorno mi ero slogato un piede per un'aggressione, un'altra volta il labbro tagliato all'interno da un pugno, poi un calcio negli stinchi mentre stavo passando vicino a dei ragazzi che ridevano fino a che un pomeriggio, in una zona popolare della città dove vivevo, non avevo visto due della "banda" uscire da un angolo della strada. 
Botte e provocazioni fatte così come se per loro fosse acqua fresca da bere, ma per me no. Ogni volta era una lama che tagliava un pezzo del cuore.

Piangevo? Si spesso, poi non più e chiuso nella mia cameretta pensavo a come poter morire senza soffrire troppo, confesso che mi vien da ridere a pensarci: 
mi vedevo gettarmi dal ponte dentro al fiume, appeso alla pianta di ciliegie dello zio Peppino in fattoria, oppure dopo aver bevuto 100 pillole per il cuore della nonna o magari con la lametta tagliarmi le vene e via di seguito... 
Ed intanto il tempo passava e le cose non cambiavano. Non riuscivo a capire il perché di questo odio da una parte di alcuni e tanta amicizia da parte di quei pochissimi amici più grandi di me ma soprattutto quella di tante ragazzine.

La banda era cresciuta con me, alcuni di loro superavano i quindici anni mentre io ne avevo solo tredici quando un giorno passando (sempre per non farmi vedere) nelle strade secondarie, soprattutto quelle situate dietro al castello, mi ero trovato di fronte tre di loro.

"Questo è il nostro territorio ora, se passi ancora una volta di qui ti spezziamo le gambe"... 
Spaventato avevo acellerato il passo e quasi fuggendo avevo avuto modo di sentire le loro risate alle mie spalle ed un sasso sfiorarmi la testa. 
Perché lo avevano fatto? Ora anche nell'unica zona in cui potevo passare tranquillamente ora non potevo più farlo. Non avevo detto nulla a nessuno ma non ero più passato da quelle parti se non con i miei.

Un mattino in bagno mentre mi facevo la doccia, era arrivato improvvisamente quel pensiero: "Io ci passo, succeda quel che succeda ora basta..." avevo deciso che quel giorno avrei preso la mia bicicletta e di fare la "provocazione" passando dalle vie proibite, volevo vincere ed ero sicuro di farcela.

Per puro caso mia madre proprio quel tardo pomeriggio, doveva portare delle camicie da sistemare ad una sarta che abitava in una di quelle vie e così avevo preso la palla al balzo, ci sarei andato io. 
Era sceso il buio presto, eravamo ancora in marzo e stranamente non faceva freddo, un cielo nuvoloso e grigio come la pietra su di me che con la bicicletta rossa e mi ero avviato sulla strada dietro il castello, fatta poi la mia commissione, avevo voglia di fare un giro in centro e mi sono immesso sulla salita chiamata pontino, non c'era nessuno.
Non riuscivo a capire se ne ero felice oppure no, se comunque si fossero presentati li avrei affrontati e in quel momento mi era venuto un coraggio, apparente, da leone finché un rumore sordo aveva colpito il mio udito, i miei sensi verso la mia destra.

Mi ero fermato e voltata la faccia forse senza sorpresa avevo visto loro. erano li fermi in piedi con un sorriso terribile sulle labbra.
Erano in sei, li ricordo tutti uno ad uno, viso per viso... Il più grande mi guardava come fossi una bestia da schiacciare, dentro mi tremava tutto.

"Che ti avevamo detto tempo fa?" aveva detto con una strana voce con lo sguardo di un gatto selvatico ed io zitto, si era avvicinato... troppo, mi sovrastava di almeno quindici centimetri, avevo la sua bocca davanti agli occhi e mi vera venuto da vomitare. 
"Allora? Stronzetto di merda dalla faccia da culo che fai qui?." non avevo detto nulla, ma sentiva il mio tremore e la mia paura, mi aveva preso per il maglione e giacca:
"Ti do due secondi per sparire, la merda come te qui non la vogliamo vedere, capito stronzetto?" mi aveva lasciato di colpo ma in tempo a reggermi al manubrio per non cadere mentre gli altri ridevano.

Non so con che sguardo lo avevo fissato e lui strinse di più gli occhi, volevo dire qualcosa ma avevo girato il volto verso la salita, sedutomi sulla bicicletta avevo iniziato a pedalare ma dalla mia bocca uscì "Vaffanculo"... 
Tremavo e non pensavo mi che avessero sentito, non andavo veloce tant'è che di nuovo qualcosa si era mosso alle spalle, avevo girato la faccia all'indietro pur pedalando e me li ero ritrovati di fianco a pochi centimetri.
Lui, il capo aveva fatto un cenno due altri che si erano messi subito davanti a me impedendomi di proseguire. Mi si era avvicinato sempre di più, nessuna mossa da parte mia, mi aspettavo di tutto ormai fino a quando arrivò quel pugno. 

Un pugno violento sulla schiena che mi aveva piegato in due facendomi sbattere lo sterno sul manubrio cadendo per terra.
"Questo è per il vaffanculo..." poi non mezzo intontito non avevo compreso le altre parole anche perché stavano scappando via, forse anche impauriti vedendomi per terra fermo, scomparendo dietro ad una curva.

Non so quanti minuti erano passati o forse erano secondi, in quel momento mi mancava il fiato, non avevo più il respiro per la botta contro il manubrio e mi faceva male pure la schiena. 
Rialzandomi vedevo i miei pantaloni sporchi di terra umida e mi bruciava il ginocchio destro. Con la bici per mano mi ero avviato piano verso la strada che costeggiava il fiume... 
Sentivo il sangue colare dal ginocchio nel calzone... Quando mi ero ritrovato vicino ad una delle piante di sambuco che costeggiavano la via davanti a quell'acqua... Osservavo come ipnotizzato quel fiume scuro ed invitante, se mi fossi buttato avrei risolto tutto.

Invece ero scoppiato in lacrime scivolando per terra appoggiato al muro dell'ultima officina prima delle rive di erba rasate che portano giù al Lambro. 
Avevo pianto non so quanto con la testa tra le mani... Non erano lacrime di dolore per il pugno, la botta allo sterno oppure per il ginocchio, ma piangevo per il male che avevo dentro, per i perché di queste cose che non capivo, per i miei tredici anni buttati al vento per colpa di altri ragazzi cattivi.

Il cielo mi sembrava sempre più buio, non c'era una stella, solo la luce di un lampione poco distante sopra la mia testa, avevo messo il capo sulle ginocchia ed ero rimasto li a pensare, mia madre mi aspettava sicuramente spaventata per il ritardo.
Poi un auto si era fermata vicino a me, una voce che mi chiamava, quando avevo alzato lo sguardo con gli occhi rossi mi era apparso dal finestrino un volto quasi spaventato, conoscevo quella persona.

"Dio mio che è successo? Paolo rispondi..." la mamma di un amico di scuola era scesa dall'auto in fretta, per aiutarmi.

Voleva portarmi a casa mia, a pochi passi da quel luogo isolato, ma io le avevo detto di no, dovevo riprendermi ancora ne avevo bisogno. Mi aveva fatto salire in macchina dopo aver legato la mia bicicletta al palo della luce e ci eravamo avviati verso la sua villa più avanti.
Nel tragitto la donna aveva ascoltato tutta la storia e siccome conosceva bene i miei, aveva deciso di raccontare tramite una telefonata a mia madre, una storiella inventata lì per lì, non appena saremmo arrivati a casa sua, per non spaventarla ulteriormente.

Ero rimasto a casa sua fino alle sette di sera e guardavo la tv con suo figlio, sentivo lei al telefono con la mamma e quindi tutto era a posto almeno esteriormente. 
Da donna intelligente mi aveva di nuovo fatto raccontare la storia e mi aveva aiutato a capire, a comprendere che purtroppo ci sono persone con grossi problemi nel relazionarsi con gli altri e sfogano la loro mancanza e frustrazione con atteggiamenti di superiorità e cattiveria per poi agire in gruppo dove si sentono più forti, attaccando chi, secondo loro erano deboli mentre sono proprio loro i meno forti. 

Quando fissandomi negli occhi mi aveva detto: "Farò qualcosa contro loro perché conosco i genitori di uno di quei bulli..." l'avevo implorata di no.
Lei aveva insistito ma io ero riuscito a spiegarle il perché: mi ero reso conto di aver trovato il coraggio di vincere le paure e le persone cattive affrontandole a qualsiasi costo.
Più tardi mentre tornavo a casa da solo, dopo averla dissuasa nell'accompagnarmi, avevo deciso che mai più sarebbe stato come prima. 
E così fu.


Riflessione conclusiva

Non è facile raccontare ciò che si è vissuto nel buio. Ma farlo è un atto di luce. Questo racconto non è solo mio: è di chiunque abbia sentito di non valere, di chi ha pensato di non avere via d’uscita, di chi ha pianto in silenzio sotto un lampione, e poi ha deciso di tornare a casa, con le ginocchia sporche e il cuore ancora vivo.

A chi oggi vive il bullismo, la solitudine, il dolore: non siete soli. Non siete sbagliati. E anche se il mondo non vi vede, la vostra luce esiste. E può diventare lanterna per altri.

Giampaolo Daccò Scaglione

 


mercoledì 12 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 30° ULTIMO RACCONTO DELLA SERIE - IL SILENZIO DEL LETTORE


 Il Silenzio del Lettore 

Il dolore del non essere letti

A volte, dopo aver scritto con il cuore, dopo aver scelto ogni parola come un petalo, dopo aver impaginato la memoria come un giardino, il silenzio arriva.

Non un commento, non uno sguardo, non una carezza. Solo scroll, distrazione, fretta. E tu ti chiedi:

“Perché nessuno legge più ciò che è buono?”

Il mondo che scorre

Viviamo in un tempo dove l’influencer conta più del poeta, dove il gesto sciocco riceve più applausi di una frase che potrebbe salvare un’anima.

Le persone sembrano più vuote, più egocentriche, più pigre nel cercare la bellezza. E tu, che scrivi per trasmettere, ti senti come un angelo che parla a una folla distratta.

La forza del dono

Ma tu continui. Continui a scrivere, a creare, a donare. Perché il dono non dipende dal numero di spettatori, ma dalla verità con cui viene offerto.

Tu sei una soglia viva, che non si piega all’indifferenza. E anche se pochi leggono, chi legge riceve una reliquia di luce.

La speranza che resiste

Ci sarà sempre qualcuno che, in silenzio, aprirà una tua pagina e sentirà qualcosa muoversi dentro. Una frase, un’immagine, un ricordo.

E anche se non ti scriverà, anche se non ti dirà nulla, tu avrai cambiato qualcosa.

Perché la bellezza vera non fa rumore, ma lascia tracce profonde.

Sigillo dei Trenta Racconti:

Il mondo corre, ma tu resisti. Tu scrivi, tu doni, tu semini. E anche se nessuno guarda, la tua luce brilla lo stesso.

Dedica: allo scrittore:

*A chi continua a creare, anche quando il mondo sembra non ascoltare. A chi scrive per amore, non per applausi.*

Giampaolo Daccò Scaglione

martedì 11 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 29 ° LA TUA MUSICA DENTRO LA MIA ANIMA

LA TUA MUSICA DENTRO NELLA MIA ANIMA

Ecco sono qui, quasi nascosta in una saletta nella loggia del meraviglioso teatro Della Scala. Non voglio ne farmi riconoscere o vedere da qualcuno, proprio non me la sento.

Vedo centinaia di persone ormai sedute, un indistinto vociare che lentamente sfoca in un silenzio seguito da un applauso quasi armonico, i tendoni del palco si sono aperti e l'orchestra è già in formazione. 

Che emozione. Sono tantissimi anni che vengo qui ad ascoltare con gioia, ciò che il Signore ha creato mettendo nelle mani, nel cuore, nella mente e nell'anima di grandi autori e musicisti quell'arte quasi sacra che si chiama Musica. 

E' una serata importante a Milano e hanno voluto dedicare a questa ricorrenza, un concerto in questo bellissimo teatro. Nel nostro posto fisso in platea, riservatissimo, ho mandato le mie tre figlie senza mariti e figli.

L'ho fatto per Lui, l'ho fatto perché nel loro cuore rimanga quella poesia, quella classe, quel talento che solo il loro padre può donare a quelle meravigliose creature. Un regalo per loro, ho inventato una scusa per non "essere presente" stupendo le tre giovani donne di casa. 

Ma Lui conosce la verità e sa dove io sono in questo momento, sa che tra poco lo guarderò con amore ed ascolterò quella scia di polvere magica che uscirà dalla sua bacchetta e accenderà la musica soave che porterà tutte quelle persone in un mondo fantastico. 

Mentre sto sistemando il mio abito da sera e la stola di visone sulle spalle, ecco, sento voci ed applausi più forti, Lui sta per entrare, mi sistemo con la mano i capelli e mi rilasso appoggiandomi sullo schienale mettendo la mano sul cuore. 

Eccolo, è entrato, si volta verso il pubblico, sorride loro e guarda verso le nostre figlie e subito dopo incontro il suo sguardo che da laggiù mi vede nel "posto segreto". Dopo trentacinque anni di matrimonio ancora mi batte il cuore, un cuore pieno di amore per Lui. 

Un amore ricambiato.

- Augusta - mi disse quel giorno, in cui per la prima volta mi portò alla Scala, dove lui sarebbe diventato uno dei grandi Maestri della musica lirica e classica - Questo sarà il nostro posto riservato, queste quattro poltrone, dove potrai con le bambine ascoltare la magia che si sprigiona da quegli strumenti, dove questa armonia ti condurrà in mondi meravigliosi e quando l'ascolterai e sarò sul palco a dirigere, vedrai che voleremo insieme tra spazi infiniti. Ti amo. - 

Roberto da quel giorno non mancò mai a questa promessa, mi aveva portato, mi porta e mi porterà sempre in questi mondi da fiaba. 

Ecco, inizia ora, l'ultimo sguardo a Francesca, Margherita e Lauretta le nostre figlie sedute attente ed orgogliose del loro biondo papà, mentre da il segnale d'inizio con la sua bacchetta "magica". 

(La musica comincia con un lento andante che alcuni violini e flauti donano un'atmosfera luminosa che Augusta assapora con occhi raggianti, nella sua mente arrivano pensieri che solo un poeta, un artista, un anima vera può generare). 

Mi sento trasportare da questa musica, vedo immagini fantastiche e suoni soavi, che nessun pittore ha mai dipinto e nessun scrittore ha mai scritto. Quest'aria mi entra diritta nel cuore, mi suscita emozioni nell'anima, mi lascio andare come uno spirito, come un angelo fluttuante nel cielo. 

Mi sta portando in un mondo dove questo suono magico fa sparire le ombre della notte ed il buio delle paure. La mia anima vola tra tempeste di fuoco, in mezzo a venti freddi, umidi, caldi. 

E' come vedere un sorrido di un angelo, è come un dolce scherzo di bambino, è come una lacrima di gioia sul volto, è come volare in mezzo a fiori e foglie nel vento. Ecco mi sta guidando, questa musica, sopra un'antica valle dove palazzi d'oro, anse di fiumi cerulei e alberi di smeraldo sono sotto ai miei occhi stupiti da questa beltà. 

Siamo Lui ed io, ora, come amanti abbracciati, volteggiare sopra una distesa di fiori ed il suo bacio sigilla un amore infinito. Nessuna parola, nessuna domanda e risposta, solo i nostri sguardi e le nostre bocche unite in un bacio che profuma di miele e rose. 

Ecco sto ancora sognando con lui, tra queste note senza vedere e sentire nessuno attorno, come sempre, come ogni volta: Lui ed io. 

Applausi infiniti e grida di gioia risvegliano Augusta dal suo sogno, si alza in piedi e unisce le sue mani delicate in un silenzioso applauso che solo Roberto vede dopo l'inchino, con uno sfuggente sguardo verso di lei, verso quel sorriso appena abbozzato.

Augusta come una fata uscita da un sogno, il loro sogno che dura da tanto tempo, forse da un'eternità. Il cuore di Roberto non batte solo per l'emozione che prova verso il pubblico e per quello che ha donato loro, ma soprattutto è per Lei, la sua donna, la sua musa dagli occhi di giada che da lassù, come un angelo stava ad ascoltare la sua musica magica che trasporterà per sempre loro, in mondi fantastici.

 Dedica:

All'amore senza confini accompagnato da una sinfonia universale piena di luce.

A chi si ama con il cuore pieno gioia, di musica, di note che vibrano nell'anima, nel cuore e nella mente superando i confini dell'universo.

A chi sa amare per sempre la persona con il cuore e gli occhi di un angelo, di un bambino ed che in questa persona ha trovato tutte le emozioni che il mondo può donare. 

Giampaolo Daccò Scaglione