Un tram a Porta Venezia
Milano, 15 ottobre 2012 – ore 13:35
Guardavo il semaforo davanti ai bastioni di Porta Venezia, insieme ad altre persone in attesa di attraversare Piazza Oberdan. Allo scatto del verde, sotto una pioggerellina e con alle spalle un vento umido, camminai veloce sulle strisce pedonali.
Un tram si fermò ad un passo da noi. Decine di persone salirono e scesero frettolosamente. Davanti all’ennesimo semaforo rosso, sentii gridare il mio nome.
Mi voltai di scatto. Dalla porta che si stava chiudendo, scorsi un volto sorridente e un braccio che si agitava in segno di saluto.
“Maurizio,” pensai.
Risposi con un ampio gesto della mano, mentre il tram accelerava verso viale Piave, quasi scomparendo alla vista.
Maurizio! Quanti anni erano che non lo vedevo? 18? 20?
L’ultima volta fu a Milano, in un bar, quando disse ai pochi amici che partiva per gli States. Un lavoro improvviso, un’occasione da non perdere.
Percorrevo Corso Venezia di fianco al parco. Dovevo tornare al lavoro, ma quell’inaspettato incontro mi aveva lasciato sorpreso.
Quando fui vicino al palazzo, una figura si fermò davanti a me. Di nuovo il mio nome, questa volta detto col fiatone.
Era lui. Era sceso alla fermata successiva e aveva corso sotto la pioggia verso la via che accede al corso.
Sorrise. Mi abbracciò forte. Il mio ombrello si spiegazzò con un rumore strano.
“Accidenti che corsa ho fatto pur di ritrovarti.”
Il suo sorriso era uguale, ma alcune rughe attorno alla bocca e sotto gli occhi rivelavano che il tempo era davvero passato.
“Sei come allora…” disse staccandosi da me.
“Vieni, andiamo a berci un caffè prima che inizi il lavoro,” risposi, davvero contento di aver ritrovato quell’amico.
Lo osservai. Vestito sportivo ma elegante. Capelli lunghi e ricci, come le basette. Occhi verdi, ancora con quella luce da ragazzaccio.
Maurizio è un astronomo. Un ragazzo che aveva avuto un’infanzia difficile, sballottato da un genitore all’altro, da una città all’altra.
Ci conoscemmo in piscina, a ventitré anni. Media altezza, fisico sportivo, mente geniale.
Poi venne la sua occasione. Presa la laurea, fu chiamato in Canada per uno stage, e un lavoro offertogli da un professore di Vancouver in un laboratorio astronomico.
Che fortuna.
Nel quarto d’ora passato insieme, seppi che viveva ora tra la California e lo Utah. Aveva fatto carriera. Occupava una posizione di rilievo nei pressi di Fresno. La sua casa era vicino a Salt Lake City.
“Beato te,” pensai.
Sono davvero felice per lui.
Più tardi ci salutammo calorosamente, ripromettendoci di ritrovarci non appena libero dai suoi impegni americani.
Quando uscì dal locale, rimasi per qualche minuto fermo a ricordare. Tra le mie dita, il foglio col suo indirizzo e telefono finì nelle mie tasche.
Pensai che l’astronomia, allora, era il mio sogno. Volevo diventare un grande astrofisico. Ma il destino spesso ti porta in altre direzioni. A volte gradevoli. A volte no.
Aprii la porta. Mi sedetti alla scrivania. Sorrisi tra me.
“Beato te, Maurizio.” E accesi il mio computer.
Dedica rituale:
A chi ha visto un volto sul tram, e ha sentito il cuore accelerare come i binari sotto la pioggia.
A chi ha ritrovato un amico dopo vent’anni, e ha capito che certi legami non si spezzano mai.
A Maurizio, che corre sotto la pioggia per un abbraccio, e porta nel cuore stelle, sogni e salvezza.
A me, Giampaolo, che ho saputo vedere la bellezza in un quarto d’ora, e trasformarla in una pagina che consola.
Questa storia è una lanterna accesa tra i binari, un caffè condiviso, un sogno che ritorna per un istante, e poi si conserva per sempre.
Giampaolo Daccò Scaglione

Nessun commento:
Posta un commento