mercoledì 1 ottobre 2025

Sere d’estate lontane - Raccolta di racconti e immagini di un tempo che respira ancora

 Sere d’estate lontane



Dedica e Prologo 

A chi ha vissuto estati che non torneranno, a chi ha pedalato tra papaveri e sogni, a chi ha guardato la luna sopra un castello e ha creduto nelle favole.

A mia madre, che cantava con me. Agli amici che venivano sul terrazzo. A me stesso, ragazzo di 16 anni, che cercava le stelle e trovava la bellezza.

Ci sono sere che non finiscono mai. Restano appese al cielo come lanterne, profumano di menta, di gerani, di grano maturo.

Sere d’estate lontane è un viaggio nella memoria, un racconto fatto di biciclette, terrazzi, castelli, e canzoni condivise.

È la storia di un ragazzo che sognava astronavi, e che, pedalando tra le curve di Belfiorito, ha imparato che la vera magia è ricordare.

Il terrazzo e le stelle

Dal terrazzo di casa, lo sguardo correva verso ovest. Anche se vivevo in centro, il fiume si allargava come un respiro, e nei giorni limpidi si vedevano le montagne lontane del Piemonte. I campi di grano, gli alberi sparsi, il cielo che cambiava colore… tutto sembrava una tela viva. 

A volte venivano amici, si giocava a carte, si cantava, si parlava di cose magiche. E quando la luna passava sopra il castello visconteo, ci avvicinavamo alle finestre per vedere le luci che danzavano tra i merli delle torri. 

Intanto, sul terrazzo, toccavo i vasi di gerani e ascoltavo la musica. Mia madre, in casa, cantava la stessa canzone. E io sognavo astronavi, meteore, mondi lontani. Era come una favola. E io ne ero parte.

…Il terrazzo diventava un osservatorio, un teatro, un altare. E noi, ragazzi con il cuore pieno di sogni, eravamo i protagonisti di una favola che nessuno aveva scritto, ma che viveva in ogni sguardo, in ogni risata, in ogni silenzio condiviso.

Si metteva su una cassetta nel mangianastri, spesso con basi karaoke, e si cantava. A volte alla finestra, altre sul terrazzo, con le voci che si mescolavano all’aria della sera. Non avevamo generi preferiti, ma evitavamo il rock duro—non aveva senso al romanticismo che ci abitava. 

Le canzoni erano come incantesimi: aprivano il cielo, facevano danzare la luna, ci facevano sentire parte di qualcosa di più grande.

Le montagne azzurre del Piemonte

Dal terrazzo di casa, quando l’aria era limpida e il vento gentile, lo sguardo correva lontano. Oltre il fiume, oltre i campi di grano e i prati verdi, oltre gli alberi sparsi come punti di cucitura sul paesaggio… si vedevano le montagne. Le montagne del Piemonte.

Non erano sempre visibili. Solo nei giorni speciali, quelli in cui il cielo sembrava voler raccontare qualcosa. Apparivano azzurre, leggere, quasi irreali. Come sogni che si erano fermati all’orizzonte per farsi guardare.

Io le osservavo in silenzio, con il cuore che si allargava. Non ci ero mai stato, ma le sentivo vicine. Erano promesse, erano possibilità, erano luoghi dell’anima.

A volte, mentre le guardavo, sul terrazzo si sentiva ancora la musica della sera. I gerani profumavano, il fiume scorreva piano, e mia madre cantava in casa.

Le montagne restavano lì, immobili e vere. E io, ragazzo sognatore, le salutavo come si saluta un amico che si rivedrà solo nei sogni.

Così finivano le sere d’estate. Con un ultimo sguardo all’orizzonte, e con la certezza che la bellezza non ha bisogno di parole per restare.

La curva di Belfiorito

Era estate, e dopo cena il mondo sembrava rallentare. Io prendevo la bicicletta e pedalavo lungo Mio Lungo, la stradina che si snodava per tre chilometri tra curve, rogge limpide, e fattorie che sembravano uscite da un quadro. 

Belfiorito e Belfuggito erano i miei punti di riferimento, i miei angoli di sogno. Il profumo dell’erba si mescolava alla menta selvatica, le libellule danzavano sopra l’acqua, e le biciclette si salutavano con un suono gentile. 

Sul ponticello della curva, ci si fermava a guardare il tramonto e gli aerei bassi che atterravano a Linate, come uccelli metallici che sfioravano il cielo. Era il mio modo di fuggire, di respirare, di vivere.

Il ponticello delle libellule

C’era un punto preciso lungo Mio Lungo dove il tempo sembrava fermarsi. Una curva dolce, un ponticello di pietra, e sotto… l’acqua limpida delle rogge. 

Le libellule danzavano sopra la superficie come piccole fate, le rane si nascondevano tra le erbe, e i fiori di campo si piegavano al vento come se ascoltassero. I campi attorno cambiavano ogni estate: frumento, grano, mais. E nell’aria si mescolava il profumo dell’erba tagliata con quello della menta selvatica.

Le biciclette passavano lente, e chi sorpassava suonava il campanello per salutare. A volte ci si fermava lì, sul ponticello, per guardare il tramonto riflettersi nell’acqua. E se il cielo era limpido, si vedevano gli aerei bassi che atterravano a Linate, come uccelli metallici che sfioravano le nuvole.

Io mi sedevo sul bordo, con le gambe penzoloni e il cuore aperto. Non pensavo a nulla, o forse pensavo a tutto. A volte portavo con me un piccolo blocco per disegnare, altre solo la mia voce, che canticchiava piano.

Quel ponticello era il mio confine magico: oltre c’era il bivio, le colline, la sera. Ma lì… lì c’era la pace. E le libellule, che sembravano sapere tutto, non dicevano nulla. Solo danzavano.

…Quel ponticello era il mio confine magico: oltre c’era il bivio, le colline, la sera. Ma lì… lì c’era la pace. E le libellule, che sembravano sapere tutto, non dicevano nulla. Solo danzavano.

Il vento tiepido dell’estate sembrava suonare canzoni invisibili, come se volesse far apparire il tramonto più colorato, più vero, più nostro.

E quando le sere d’estate si fanno lontane, basta chiudere gli occhi e tornare lì—sul terrazzo, sul ponticello, tra le curve di Belfiorito—per ricordare che la bellezza non svanisce: si trasforma in memoria, e la memoria… canta.

Giampaolo Daccò Scaglione

 


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