lunedì 6 ottobre 2025

Regent’s Park e il giorno in cui mi persi per ritrovarmi

 “A tutti quelli che parlano inglese come mucche svizzere, 

scrivono come pecore spagnole, 

e bevono il tè con vecchie signore dai cappellini fioriti: 

questa storia è per voi.”


"Regent’s Park e il giorno in cui mi persi per ritrovarmi."

Con un amico pazzo, una mucca olandese e una doccia (solo per ridere)


Maggio – Londra

Introduzione

Ci sono giorni che sembrano normali, e poi diventano leggende personali. Questa è la storia di un viaggio a Londra, di un parco che sembrava Eden, di un amico pazzo che parlava italiano come una mucca olandese, e di una visione che sarebbe tornata anni dopo, tra Stonehenge e il Tor…

Il giardino e la mucca olandese

“Ma sei sicuro che siamo a Londra?” sbottai, guardando l’espressione soddisfatta di Thomas — sembrava non vedesse il sole da mesi. Annuì con la testa. Io scoppiai a ridere.

Camminavamo veloci in tuta da ginnastica lungo Wellington Road, passando accanto all’Humana Hospital. Poi, girando a sinistra, ci mettemmo a correre sulla Prince Albert Road. Dopo mezzo chilometro, prendemmo un viottolo sulla destra che attraversava il Grand Union Canal, e finalmente ci ritrovammo nel cuore di Regent’s Park.

Che meraviglia. Il verde, le aiuole, la luce tiepida… Pensai al Parco Sempione di Milano, che sembrava un bonsai in confronto.

“È meraviglioso qui…” dissi a Thomas, rallentando la corsa. “Of course,” rispose lui, prendendomi per un braccio e trascinandomi verso una stradina. Davanti a noi, un piccolo chiosco di bibite. Acqua naturale. Panchina. Paradiso.

Thomas, nel suo italiano buffo, mi disse: “Te piacerò visitare Queen Mary’s Gardens… È little avanzare poco là.” Risi. “Essere a sei-ziro-ziro-ziro yards da here.” Scoppiammo a ridere. Gli dissi: “Tommy, parli l’italiano come una mucca olandese!” E corsi via, inseguito da lui.

Più tardi, sudati e accaldati, ci trovammo nell’Inner Circle. Da lì vedevo nitidamente il Regent College. Sembrava Eden. Vecchiette col cappellino portavano cani educatissimi. Case a semicerchio si affacciavano sul verde. Mi aspettavo Peter Pan volare sopra di noi. O Mary Poppins scendere con l’ombrello per aiutare qualche bambino solitario.

“Hey dreamer, look here.” La voce di Tommy mi riportò alla realtà. Due scoiattoli correvano verso una pianta. Un cerbiatto camminava lento sull’erba. Dove si firmava per la residenza in paradiso?

Thomas mi cinse le spalle con il braccio. “Tu rilassare, non esserci niente di brutto se ti abbraccio… Londra non è Italia ahahahah. Voi italians molti problemi fare.”

La casa, la doccia e il sogno verde

Effettivamente mi sentivo un po’ sciocco — il classico italiano pieno di pregiudizi — mentre attorno a me girava di tutto. Sul bus che ci riportava a Carlton Hill, dove abitava Thomas, sorrisi nel vedere un ragazzo punk baciare una ragazza addobbata come un cesto di rose. Erano fermi sul marciapiede, davanti al semaforo. A Londra nulla stupisce. Quel miscuglio di umanità è la norma, non l’eccezione.

L’autobus si fermò poco dopo il Malborough Hospital. Scendemmo e ci avviammo verso casa.

Avevo ancora sei giorni di vacanza. Stare a Londra era il massimo. L’indomani Thomas mi avrebbe portato da suo fratello ad Amersham, poco fuori città, per due giorni in campagna.

“Please Tom, Friday to take me to know Aunt Betty II?” (Mi faresti conoscere zia Betty — la regina?) chiesi con tono teatrale.

“Stupìdo!” mi rispose imitando Stanlio, e corremmo su per le scale di casa.

La porta si aprì prima che suonassimo. Sua madre — tipica signora inglese dagli occhiali rotondi — ci sorrise sulla soglia.

“Oh my God, Thomas is now a perfect Italian,” disse guardandomi, mentre lui lanciava le scarpe in aria appena entrato.

“Are you crazy, Tom?” continuò lei, osservando la mia faccia stupita. Avrei voluto dirle che io non lancio le scarpe in casa, ma capii che era una battuta.

Thomas mi guardò con aria sinistra, occhi da bischero, e disse: “Want to give you a shower before me? Maybe I wash first… or do together?”

Scoppiai a ridere. Sua madre, pur sorridendo, lo fulminò con lo sguardo: “Tom!”

Lui si avvicinò, l’abbracciò, e disse che era solo una battuta — sul fatto che noi italiani abbiamo un po’ di pregiudizi. Poi sparì in bagno.

Betty mi guardò, scosse la testa, e tornò in cucina a preparare la cena.

Io mi sedetti sulla poltrona davanti alla libreria. Chiusi gli occhi. E l’immagine di Regent’s Park tornò a farsi strada: il verde immenso, le aiuole fiorite, la luce tiepida che sembrava una carezza sul cuore.

Il verde che resta dentro

Quella sera, seduto sulla poltrona, mentre Regent’s Park tornava a fiorire nei miei occhi chiusi, capivo che Londra non era solo una città — era una soglia, un giardino, un teatro di stranezze e bellezze.

Thomas, Betty, gli scoiattoli, le battute, il punk e la ragazza-rosa… tutto era parte di una danza che mi aveva cambiato, senza che me ne accorgessi.

E forse è proprio questo il senso del viaggio: non cercare qualcosa, ma lasciarsi sorprendere da ciò che ci trova.

Londra mi aveva trovato. Mi aveva fatto ridere, correre, osservare, mi aveva fatto sentire sciocco e libero, mi aveva insegnato che la meraviglia non ha bisogno di spiegazioni.

Da quel giorno, il verde di Regent’s Park non mi ha mai lasciato. È rimasto dentro, come una visione gentile, come una carezza che torna ogni volta che chiudo gli occhi.

E anche se sono tornato a casa, quel giardino vive ancora in me — come una pagina che non si chiude, come una promessa che vibra nel cuore.

 E se qualcuno mi chiede se parlo bene inglese, rispondo sempre con sincerità: 

“I speak English like a Swiss cow and write like a Spanish sheep.”

Giampaolo Daccò Scaglione

 



giovedì 2 ottobre 2025

ACQUA MAGICA


ACQUA MAGICA

Estate.

Un tramonto infuocato si stagliava davanti a noi, e nel mezzo cielo blu verso oriente brillava la Luna — la nostra Dea Madre. Nonna ed io eravamo appena tornati dai campi colorati vicino al fiume, con la borsa di canapa piena di fiori, erbe e radici. Lei, la mia nonna — la strega buona — mi aveva lasciato la pesante eredità del segno. Non era passato molto tempo da quando mi aveva insegnato a usare, lavorare e creare con le erbe, i profumi, le pozioni “magiche”.

Ma mancava ancora qualcosa: l’Acqua. L’elemento da cui nasciamo, quello della Dea Madre, fonte di vita, nutrimento e purificazione.

Nonna aveva guardato la Luna dalla porta d’ingresso, poi l’aveva chiusa dolcemente. Mi aveva fissato con i suoi occhi neri brillanti e detto:

“È ora…”

Mi aveva condotto in cucina. Ci eravamo avvicinati al lavello sotto la finestra con le inferriate, che dava verso ovest — verso il tramonto, il fiume, i campi. Mi aveva sorriso dolcemente. I suoi occhi brillavano nella luce rossa, e i suoi capelli scurissimi, cotonati, riflettevano bagliori carminio sulle ciocche raccolte.

Aveva posato una bacinella di rame sul tavolino e vi aveva versato dell’acqua fredda da un vaso rotondo di cristallo.

“Paolo, conta molto non usare oggetti quadrati o con angoli, vedi? Il cerchio, la sfera, amalgamano bene gli elementi. Non ti sei accorto che nell’acqua c’erano sale e gocce di arnica? Anche la bacinella è rotonda…”

Annuivo, affascinato dai suoi gesti.

“Fai quello che faccio io. Abbiamo già posato le erbe, le radici e le foglie nei loro vasetti, nome per nome. Ora…”

Aveva posato le palme sopra l’acqua, pronunciando brevi parole che mi aveva insegnato. Poi le aveva immerse fino a toccare il fondo, ruotandole lentamente in senso orario, poi antiorario.

“Ora fallo anche tu, dolcemente… Lei ha bisogno di questo.”

Le sue mani restarono immerse per un po’, poi le sollevò con le palme rivolte verso il sole quasi tramontato.

“Serve per liberare l’energia cattiva accumulata durante il giorno — a scuola, al lavoro, ovunque. Va fatto prima di cena, o meglio prima di coricarsi. Le mani devono restare aperte, toccare il fondo. Intanto, pensa alle cose brutte della giornata e lasciale andare… dentro quest’acqua magica. Visto?”

Sapevo che non era solo una purificazione. Era una preparazione all’arte esoterica, già inculcata in me fin dalla nascita. Un’iniziazione alle arti notturne.

Più tardi, dopo cena, mentre nonna parlava con mamma e zia, mi ero seduto vicino alla finestra dove avevamo compiuto il rito. Il tramonto aveva ceduto il passo alla notte stellata. La mezza falce bianca della Dea Madre era là, sopra di me, sopra il mio sguardo.

Ero sereno, quasi felice. Lei aveva visto tutto. Sentivo le maree lunari dentro di me, anche se ancora non ne avevo coscienza. L’astro argenteo mi proteggeva con la sua luce riflessa, e l’energia femminile che ne scaturiva avvolgeva la Terra.

Sorrisi alla Luna come un folletto dispettoso, appoggiai la testa sul braccio, e subito la mia mente prese la strada della fantasia.

Dedica a Nonna – Custode dell’Acqua Magica

A te, Nonna mia, che mi hai insegnato a parlare con le erbe, a riconoscere la Luna come Madre, a immergere le mani nell’acqua come in un abbraccio sacro.

A te, che hai trasformato la cucina in un tempio, il rame in soglia, il tramonto in iniziazione.

Questo racconto è il tuo respiro, la tua voce che ancora vibra nelle mie dita, la tua luce che mi guida nelle notti stellate.

Ti porto con me, in ogni gesto, in ogni parola, in ogni acqua che purifica e prepara.

 

Tuo Paolo, figlio del segno, apprendista lunare, custode delle acque e delle parole trasmesse. Con amore, sotto la protezione della Dea Madre.

Giampaolo Daccò Scaglione

mercoledì 1 ottobre 2025

Sere d’estate lontane - Raccolta di racconti e immagini di un tempo che respira ancora

 Sere d’estate lontane



Dedica e Prologo 

A chi ha vissuto estati che non torneranno, a chi ha pedalato tra papaveri e sogni, a chi ha guardato la luna sopra un castello e ha creduto nelle favole.

A mia madre, che cantava con me. Agli amici che venivano sul terrazzo. A me stesso, ragazzo di 16 anni, che cercava le stelle e trovava la bellezza.

Ci sono sere che non finiscono mai. Restano appese al cielo come lanterne, profumano di menta, di gerani, di grano maturo.

Sere d’estate lontane è un viaggio nella memoria, un racconto fatto di biciclette, terrazzi, castelli, e canzoni condivise.

È la storia di un ragazzo che sognava astronavi, e che, pedalando tra le curve di Belfiorito, ha imparato che la vera magia è ricordare.

Il terrazzo e le stelle

Dal terrazzo di casa, lo sguardo correva verso ovest. Anche se vivevo in centro, il fiume si allargava come un respiro, e nei giorni limpidi si vedevano le montagne lontane del Piemonte. I campi di grano, gli alberi sparsi, il cielo che cambiava colore… tutto sembrava una tela viva. 

A volte venivano amici, si giocava a carte, si cantava, si parlava di cose magiche. E quando la luna passava sopra il castello visconteo, ci avvicinavamo alle finestre per vedere le luci che danzavano tra i merli delle torri. 

Intanto, sul terrazzo, toccavo i vasi di gerani e ascoltavo la musica. Mia madre, in casa, cantava la stessa canzone. E io sognavo astronavi, meteore, mondi lontani. Era come una favola. E io ne ero parte.

…Il terrazzo diventava un osservatorio, un teatro, un altare. E noi, ragazzi con il cuore pieno di sogni, eravamo i protagonisti di una favola che nessuno aveva scritto, ma che viveva in ogni sguardo, in ogni risata, in ogni silenzio condiviso.

Si metteva su una cassetta nel mangianastri, spesso con basi karaoke, e si cantava. A volte alla finestra, altre sul terrazzo, con le voci che si mescolavano all’aria della sera. Non avevamo generi preferiti, ma evitavamo il rock duro—non aveva senso al romanticismo che ci abitava. 

Le canzoni erano come incantesimi: aprivano il cielo, facevano danzare la luna, ci facevano sentire parte di qualcosa di più grande.

Le montagne azzurre del Piemonte

Dal terrazzo di casa, quando l’aria era limpida e il vento gentile, lo sguardo correva lontano. Oltre il fiume, oltre i campi di grano e i prati verdi, oltre gli alberi sparsi come punti di cucitura sul paesaggio… si vedevano le montagne. Le montagne del Piemonte.

Non erano sempre visibili. Solo nei giorni speciali, quelli in cui il cielo sembrava voler raccontare qualcosa. Apparivano azzurre, leggere, quasi irreali. Come sogni che si erano fermati all’orizzonte per farsi guardare.

Io le osservavo in silenzio, con il cuore che si allargava. Non ci ero mai stato, ma le sentivo vicine. Erano promesse, erano possibilità, erano luoghi dell’anima.

A volte, mentre le guardavo, sul terrazzo si sentiva ancora la musica della sera. I gerani profumavano, il fiume scorreva piano, e mia madre cantava in casa.

Le montagne restavano lì, immobili e vere. E io, ragazzo sognatore, le salutavo come si saluta un amico che si rivedrà solo nei sogni.

Così finivano le sere d’estate. Con un ultimo sguardo all’orizzonte, e con la certezza che la bellezza non ha bisogno di parole per restare.

La curva di Belfiorito

Era estate, e dopo cena il mondo sembrava rallentare. Io prendevo la bicicletta e pedalavo lungo Mio Lungo, la stradina che si snodava per tre chilometri tra curve, rogge limpide, e fattorie che sembravano uscite da un quadro. 

Belfiorito e Belfuggito erano i miei punti di riferimento, i miei angoli di sogno. Il profumo dell’erba si mescolava alla menta selvatica, le libellule danzavano sopra l’acqua, e le biciclette si salutavano con un suono gentile. 

Sul ponticello della curva, ci si fermava a guardare il tramonto e gli aerei bassi che atterravano a Linate, come uccelli metallici che sfioravano il cielo. Era il mio modo di fuggire, di respirare, di vivere.

Il ponticello delle libellule

C’era un punto preciso lungo Mio Lungo dove il tempo sembrava fermarsi. Una curva dolce, un ponticello di pietra, e sotto… l’acqua limpida delle rogge. 

Le libellule danzavano sopra la superficie come piccole fate, le rane si nascondevano tra le erbe, e i fiori di campo si piegavano al vento come se ascoltassero. I campi attorno cambiavano ogni estate: frumento, grano, mais. E nell’aria si mescolava il profumo dell’erba tagliata con quello della menta selvatica.

Le biciclette passavano lente, e chi sorpassava suonava il campanello per salutare. A volte ci si fermava lì, sul ponticello, per guardare il tramonto riflettersi nell’acqua. E se il cielo era limpido, si vedevano gli aerei bassi che atterravano a Linate, come uccelli metallici che sfioravano le nuvole.

Io mi sedevo sul bordo, con le gambe penzoloni e il cuore aperto. Non pensavo a nulla, o forse pensavo a tutto. A volte portavo con me un piccolo blocco per disegnare, altre solo la mia voce, che canticchiava piano.

Quel ponticello era il mio confine magico: oltre c’era il bivio, le colline, la sera. Ma lì… lì c’era la pace. E le libellule, che sembravano sapere tutto, non dicevano nulla. Solo danzavano.

…Quel ponticello era il mio confine magico: oltre c’era il bivio, le colline, la sera. Ma lì… lì c’era la pace. E le libellule, che sembravano sapere tutto, non dicevano nulla. Solo danzavano.

Il vento tiepido dell’estate sembrava suonare canzoni invisibili, come se volesse far apparire il tramonto più colorato, più vero, più nostro.

E quando le sere d’estate si fanno lontane, basta chiudere gli occhi e tornare lì—sul terrazzo, sul ponticello, tra le curve di Belfiorito—per ricordare che la bellezza non svanisce: si trasforma in memoria, e la memoria… canta.

Giampaolo Daccò Scaglione

 


lunedì 29 settembre 2025

Un Amicizia tra Mare e Spirito - Parte finale

Un Amicizia tra Mare e Spirito - Parte finale





 


La Pozza e la Luce Sussurrata

Il crepuscolo avvolgeva il paesaggio in una carezza dorata. Nel cuore di una radura nascosta, una pozza rotonda di acqua cristallina rifletteva il cielo come uno specchio antico. Al centro, solitario e fiero, un fiore giallo sbocciava, come se fosse stato piantato da una mano invisibile.

Attorno, cespugli di felci e trifogli danzavano piano al vento, come guardiani silenziosi. Ogni foglia sembrava sussurrare un segreto, ogni trifoglio una promessa.

Dietro la pozza, una stradina sottile si snodava tra gli alberi, illuminata non da lampade, ma da una luce sussurrata, come se il terreno stesso emanasse bagliore, come se qualcuno — o qualcosa — avesse acceso la memoria del luogo.

Il medianico si avvicinò, attirato da quella visione. Si inginocchiò davanti al fiore, e nell’acqua vide non il suo riflesso, ma una scena futura: un abbraccio, una parola, una soglia varcata insieme al sagigo.

Il saggio, poco distante, osservava in silenzio. Non servivano parole. Quel fiore era la prova che la luce nasce anche nei luoghi più nascosti, che la bellezza può sbocciare senza testimoni, e che la stradina illuminata era pronta a condurli verso una nuova missione.

La Presenza che Pianta Luce

 Il medianico si avvicinò al fiore giallo, attratto da quella bellezza che sembrava non appartenere al mondo visibile. La pozza cristallina tremava appena, come se respirasse. Le felci e i trifogli attorno si piegavano dolcemente, non per il vento, ma per una presenza che li accarezzava senza toccarli.

All’improvviso, un’ombra lontana si delineò sulla stradina illuminata. Non aveva forma, ma non faceva paura. Era come una memoria che cammina, come una carezza che ha preso corpo, come una guida che non chiede di essere vista, ma solo sentita.

Il saggio, seduto poco distante, chiuse gli occhi. Nel silenzio, comprese: quel fiore era stato piantato da una volontà gentile, forse una versione futura di loro stessi, forse una custode che veglia da un altro piano, forse la manifestazione di un legame così puro da generare vita anche nel silenzio.

Il medianico si voltò verso l’ombra. Non parlò. Ma nel suo cuore, una frase si formò da sola:

“Grazie per averci lasciato questo segno. Lo custodiremo.”

L’ombra si dissolse piano, come se fosse tornata nel luogo da cui i sogni nascono. E il fiore giallo, per un istante, brillò di una luce che non era del sole… ma della promessa mantenuta.

La Dimora nella Nebbia

 Svanita l’ombra, la stradina si rivelò più lunga e sottile, come tracciata da mani invisibili. Il fiore giallo restava lì, al centro della pozza, come guardiano del varco appena aperto. Le felci e i trifogli sembravano inchinarsi al passaggio dei due fratelli, mentre la luce sussurrata continuava a guidarli, non dall’alto, ma dal cuore della terra.

Man mano che avanzavano, una nebbiolina gentile avvolgeva il bosco. Non era fredda, né inquietante: era come una carezza che protegge, come un velo che invita a rallentare.

Tra le lucine misteriose — forse lucciole, forse presenze — si intravedeva una dimora nascosta. Solo un dettaglio era visibile: un tetto rosso a punta, lucido come laccato, che sembrava riflettere memorie antiche e desideri futuri. E proprio sull’angolo del tetto, una lanterna solitaria, accesa, come se stesse aspettando qualcuno da molto tempo.

Il medianico si fermò. Il saggio gli posò una mano sulla spalla. Non dissero nulla. Ma entrambi sapevano: quella casa non era solo una casa. Era una soglia ulteriore, forse il luogo dove l’ombra vive, forse la dimora del Custode, forse una parte di loro stessi che li stava aspettando da sempre.

Dimora Silenziosa

La stradina, ancora illuminata da quella luce sussurrata, conduceva i due fratelli verso una presenza che sembrava attenderli da sempre. Tra la nebbiolina gentile e le lucine fluttuanti, si rivelò una casa orientale, forse cinese, forse giapponese, costruita in legno chiaro, come se fosse cresciuta dal bosco stesso.

Davanti alla porta, un piccolo spazio rialzato con ringhiera di legno, come un invito a fermarsi, respirare, ascoltare. La porta era blu laccato, decorata con simboli antichi, che sembravano vibrare piano, come se riconoscessero i due viandanti.

Sopra, il tetto rosso a punta, lucido come lacca, rifletteva il cielo e le memorie. Su un angolo, una lanterna accesa, discreta ma viva, come se dicesse: “Siete arrivati. Entrate quando il cuore è pronto.”

Davanti alla porta, fiori appesi ondeggiavano piano, forse orchidee, forse peonie, forse sogni fioriti. E dalle due finestre laterali, il vetro rifletteva luci soffici, come se dentro ci fosse una pace che non ha bisogno di parole.

Il medianico si fermò. Il saggio lo guardò. Entrambi sentirono che quella casa non era solo una casa. Era un luogo di passaggio, forse la dimora del Custode, forse una parte di loro stessi che si era fatta spazio visibile

La Pergamena Dorata ed il Messaggio sulla Mappa Medianica

La porta blu laccata si aprì da sola, con un suono lieve, come se li avesse riconosciuti. Il saggio era entrato per primo, con passo sicuro e occhi aperti. Il medianico lo ha seguito, ancora incerto, ma già rapito dalla vibrazione del luogo.

La stanza era fatta di bambù chiaro, profumata di legno e silenzio. Gli accessori rossi, gialli e blu sembravano colori rituali, disposti con cura come in un altare invisibile. Un camino acceso crepitava piano, come se stesse raccontando una storia in lingue dimenticate. Le sedie di pelle  invitavano a sedersi, ma qualcosa li tratteneva: il tavolo al centro, e sopra di esso, una pergamena arrotolata, illuminata da un lampadario di carta sospeso, che diffondeva luce come se fosse fatta di sogni.

La pergamena sembrava chiamarli, non con voce, ma con polvere dorata che si sprigionava piano, come se stesse svelando un messaggio antico, una missione, una verità che aspettava solo loro.

E sopra, scritto in un inchiostro che sembra vivo, appaiono queste parole:

 “Non siete voi a scegliere il cammino. È il cammino che vi ha scelto. Tu medianico sei il custode della soglia, colui che illumina senza chiedere, che ascolta anche il silenzio, che cammina accanto al cuore che vede. Questa mappa non mostra luoghi, ma momenti. E ogni momento sarà una porta, se avrai il coraggio di aprirla.”

Il saggio, era restato in silenzio, il medianico sorrise.

Il saggio guardava il fratello di quel viaggio incominciando a parlare:

“Sai già tutto. Ma mi lasci scoprire da solo, perché la vera guida è quella che non impone, ma accompagna. E’ una missione. E non una qualsiasi: è la nostra, affidata dalla pergamena dorata, scelta dalla casa nascosta, accesa dalla lanterna sul tetto rosso

Tu, medianico, fratello mio l’hai sentita subito. Io, saggio, l’ho accolta con stupore e gratitudine. E ora siamo pronti a compierla, passo dopo passo, soglia dopo soglia.”

La Missione della Pergamena Dorata

Il saggio aveva capito che presto dovevano andar via da quel luogo magico, il medianico aveva risposto alle parole dette prima dal fratello maggiore: 

"Abbiamo il dovere di portare luce nei luoghi dimenticati. Riconoscere i simboli che parlano solo a chi sa ascoltare. 

Trasformare ogni frammento di dubbio in un atto di bellezza. Proteggere il legame che ci unisce, perché è la chiave che apre le porte invisibili

La pergamena non ci mostra mappe geografiche, ma mappe dell’anima, e ogni sera che ci scriviamo, ogni visione che condividi, è un passo compiuto nella missione."

Il saggio osservava il medianico e dalla sua bocca uscirono le parole magiche:  

“Questa è la consacrazione della missione, il momento in cui il cielo e la terra si danno la mano, e noi — zenit e nadir, saggio e medianico — iniziamo il viaggio che ci trasformerà entrambi.

Tu mi insegnerai le vie invisibili, le correnti esoteriche, i messaggi che solo il cuore sa decifrare. Io ti offrirò le mappe materiali, le parole che costruiscono ponti, le lanterne che illuminano il sentiero. 

E insieme, come due poli opposti che si attraggono, daremo forma a un sapere che nessuno può possedere da solo.”

La pergamena, compiuta la sua funzione, era svanita tra le mani del Saggio, come uno sfarfallio dorato, lasciando dietro di sé una vibrazione di gratitudine, come se avesse detto loro: “Ora siete pronti.”

I due fratelli del viaggio magico compresero che dovevano tornare indietro, lungo la stradina che li aveva condotti fin lì. Durante il cammino nel punto dove era iniziato tutto, il fiore giallo non c’era più. Ma al suo posto, come in un rito di passaggio, ci stavano una chiave e un foglio.

Il Saggio aveva aperto il foglio appena raccolto. Il medianico si era avvicinato guardando entrambi ed insieme avevano incominciato a leggere:

“Tornate dove tutto è cominciato. Vicino al faro, dove il mare vi ha parlato per la prima volta. Lì troverete le vostre verità. Non quelle che già conoscete, ma quelle che potete insegnarvi a vicenda.”

La chiave brillava piano. Non apre una porta fisica, ma una soglia condivisa, quella casa sul mare dove vivevano, dove il saggio scriveva e il medianico sognava, dove il faro li proteggeva e le onde li chiamavano.

La Casa Unificata e del Terrazzo delle Conoscenze

Arrivarono al promontorio, dove una magia silenziosa aveva compiuto il suo incanto: le due case — quella del saggio e quella del medianico — ora erano una sola dimora, posata sulla roccia poco distante dal faro, che al loro arrivo si accese, come se stesse dicendo: “Bentornati.”

La casa era bella e viva, fatta di legno chiaro e pietra levigata dal vento. Le finestre ampie lasciavano entrare il mare, e ogni stanza sembrava ricordare qualcosa di loro, come se fosse cresciuta dai loro racconti.

Il terrazzo si apriva sul mare, con il cielo che cominciava a vestirsi di notte. Due poltrone bianche li aspettavano, come se fossero state messe lì da una mano gentile, una per il saggio, una per il medianico.

Si erano seduto. Il medianico aveva iniziato a parlare di energie, soglie, visioni. Il saggio gli aveva risposto con parole concrete, mappe, gesti. E così, lo scambio era cominciato: non come lezione, ma come danza tra due poli, tra zenit e nadir, tra cielo e terra.

All’improvviso, una cometa invisibile era passata sopra di loro. Non l'avevano vista ma sentirono qualcosa: una vibrazione dolce, come un respiro cosmico. Dal cielo scesero polveri dorate, argentee, azzurre, che si posarono su di loro come benedizione.

Era stato l’inizio. L’inizio delle loro reciproche conoscenze, del viaggio che non aveva bisogno di tempo, perché vive tra le parole che si scambiavano, tra le immagini che si donavano, tra le soglie che varcavano insieme.

La chiave non era per aprire una porta qualunque. Era per aprire il tempo condiviso, la casa che non esisteva ancora, quella che la missione aveva fatto nascere: una dimora sopra la roccia, accanto al faro, dove il cielo e il mare si davano appuntamento ogni sera.

Il saggio aveva guardato negli occhi il ragazzo seduto accanto a lui ed aveva incominciato a parlare:

" Vivremo lì, tu e io, per il periodo dell’insegnamento — o forse per sempre, perché certe case non si misurano in giorni, ma in verità scambiate, in sguardi che illuminano, in polveri dorate che ci benedicono dall’alto.

Tu mi insegnerai a vedere ciò che non si vede. Io ti insegnerò a toccare ciò che sembra lontano. E ogni sera, sulle poltrone bianche del terrazzo, il mare ci ascolterà, il faro ci proteggerà, e il cielo ci ricorderà che la nostra casa è anche una stella."

Da quel momento, la loro vita condivisa aveva il sentiero delle due menti, delle due conoscenze che sarebbero arrivate in futuro, ad una sola. L'unica verità.

Giampaolo Daccò Scaglione

 

 


mercoledì 24 settembre 2025

Mistral - L'Elfo del Ghiaccio (Seconda Parte)

 

Mistral – L’Elfo del Ghiaccio


La visione della Regina Ysheah

Era una notte di gelo puro. Il cielo sembrava una distesa di vetro, e le stelle brillavano come occhi antichi. Io sedevo accanto a Lohar, nel cerchio di pietre che gli gnomi chiamano la bocca del tempo. Avevo acceso un piccolo fuoco blu, che non scaldava il corpo ma la mente.

Chiusi gli occhi. Respirai piano. E la visione arrivò.

Non fu sogno. Non fu ricordo. Fu presenza.

Ysheah apparve tra le fiamme, alta, luminosa, con il volto sereno e gli occhi pieni di neve. Non parlò. Ma la sua voce mi attraversò come vento.

“Mistral, figlio del ghiaccio e della luce. Il tempo si avvicina. La promessa che ti feci è vicina al compimento. Ma prima, dovrai affrontare ciò che hai dimenticato. Non il dolore. La scelta.”

La fiamma si alzò. Dentro vidi volti: mia madre, Thaylen, il bambino sulla riva del fiume, il bosco dei sambuchi, la rosa bianca. Tutto era collegato. Tutto era parte di me.

“La ricompensa non è un dono. È un riconoscimento. E tu, Mistral, sei pronto.”

La visione svanì. Il fuoco si spense. Lohar mi guardò, come se avesse visto anche lei.

Quella notte capii che il tempo non è una linea. È un cerchio. E che ogni gesto, ogni parola, ogni lacrima… torna. Come neve che si posa, si scioglie, e poi ricade.

La Regina Ysheah non mi aveva detto cosa sarebbe accaduto. Ma io lo sentivo. La strada si stava aprendo. E il vento… era cambiato.

La notte delle stelle cadenti

Era il solstizio d’inverno. Il cielo si era fatto più profondo, come se volesse contenere tutti i pensieri del mondo. Io ero disteso sulla neve, con Lohar accanto, il muso tra le zampe e gli occhi aperti verso l’infinito.

Le stelle cadevano. Una dopo l’altra, lente, silenziose, come promesse che non hanno fretta. Ogni scia era un ricordo. Ogni luce, una domanda.

Pensai a mia madre. Alla sua voce che non ricordo, ma che sento ancora. Al suo amore nascosto, al coraggio di avermi donato alla neve.

Pensai a Thaylen, mio padre vero. All’uomo che non ho conosciuto da bambino, ma che ho incontrato da adulto. Ai suoi occhi, che erano i miei.

Pensai a Ysheah. Alla sua promessa. Alla sua presenza che non mi ha mai lasciato.

E poi pensai a me. A Norwenn. A Mistral. A chi ero, a chi sono, a chi sarò.

La neve sotto di me non era fredda. Era memoria. Era casa.

Lohar mi guardò. Non disse nulla. Ma io sentii il suo pensiero.

“Tu non sei solo.”

E in quel momento, una stella cadde più vicina. Sfiorò la terra, e si dissolse in una goccia di luce. Io la raccolsi. La chiusi nel palmo. E la conservai.

Quella notte, capii che la solitudine non è assenza. È spazio. Spazio per ascoltare, per ricordare, per amare.

E che ogni stella cadente è una carezza del cielo. Un segno che il tempo non è finito. È solo in cammino.

Il bambino sulla riva del fiume

Il vento mi aveva parlato. Non con parole, ma con urgenza. Una corrente fredda, improvvisa, che mi aveva attraversato il petto come un richiamo.

Lohar si era alzata prima di me. Aveva fiutato qualcosa nell’aria, e i suoi occhi dorati erano diventati inquieti. Senza dire nulla, ci eravamo messi in cammino.

Il fiume di Azhavan era in piena. Le sue acque, limpide e gelide, scorrevano tra le rocce come pensieri che non si fermano mai. E lì, sulla riva, lo vidi.

Un bambino. Piccolo, tremante, avvolto in un mantello strappato. Aveva gli occhi spalancati, ma non piangeva. Guardava l’acqua, come se stesse cercando qualcosa che non c’era.

Mi avvicinai piano. Ogni passo era un ricordo. Ogni fiocco di neve, una voce del passato.

“Norwenn…” “Piccolo mio…”

Era come rivedere me stesso. Il giorno dell’abbandono. Il gelo sulla pelle. Il vuoto nel cuore.

Mi inginocchiai accanto a lui. Lohar si sedette dall’altro lato, silenziosa, protettiva.

“Non sei solo,” gli dissi. “Io sono qui. E tu sei al sicuro.”

Il bambino mi guardò. I suoi occhi erano pieni di domande che non sapeva formulare. Allungò una mano. Io la presi.

Una luce azzurra ci avvolse. Il fiume rallentò. Il tempo si fermò.

Quella missione non era solo un salvataggio. Era un ritorno. Un cerchio che si chiudeva. Un segno che la promessa di Ysheah era vicina al compimento.

Il bambino non parlò mai. Ma quando lo portai nella mia casa sull’albero, si addormentò tra le zampe di Lohar. E io capii.

La ricompensa non era lontana. Era già iniziata.

La soglia del Regno degli Alti Elfi

Il sentiero era diverso. Non innevato, non ghiacciato. Luminoso.

Camminavo con Lohar accanto, ma il bosco non era più Azhavan. Gli alberi erano alti, sottili, e le loro foglie brillavano come vetro sotto la luce di un sole che non scaldava, ma rivelava.

Ogni passo era silenzioso. Ogni respiro, più lento. Sentivo che qualcosa stava cambiando.

Davanti a me, una radura. Al centro, un arco di pietra bianca, intagliato con rune che non avevo mai visto. E oltre l’arco… il Regno degli Alti Elfi.

Non entrai. Non ancora.

Mi fermai sulla soglia. Lohar si sedette accanto a me, come sempre. Ma anche lei sembrava diversa. Più grande. Più antica.

Chiusi gli occhi. E sentii la voce di Ysheah.

“La ricompensa è vicina. Ma non è un luogo. È una scelta. E tu, Mistral, devi ancora ricordare.”

La soglia non era un confine. Era una domanda.

 Rimasi lì per ore. Forse giorni. Il tempo non aveva più forma.

Vidi volti. Sentii nomi. Ricordai fiori. Sette.

E capii che prima di entrare, dovevo tornare indietro. Non nel luogo. Nel cuore.

Ricordo: La prova dei sette fiori

Quella notte, mentre il vento sussurrava tra i rami e Lohar dormiva accanto a me, chiusi gli occhi e lasciai che il passato tornasse. Non come dolore. Come dono.

Ricordai Fauxia, la Fata del Mattino. Ricordai il sentiero tra la nube verde e la nube rosa. Ricordai i sette fiori. E il nome che portavo allora: Norwenn.

SETTE FIORI

- Perché sette fiori? - chiede il piccolo gnomo dalla Fata del mattino con i suoi due occhi enormi azzurro cielo spalancati su di lei.

- Perché solo così capirai il senso della vita, perché così diventerai adulto e lo sai che gli gnomi diventano adulti al loro centunesimo anno di vita terrestre. -

- Ma voi fate no! Tu Fauxia regina del mattino hai migliaia di anni e vi ho sempre viste così. - la fata sorride al piccolo gnomo dai capelli color del mare, sa che deve dargli una risposta.

- Tesoro, no. Anche noi eravamo piccole crisalidi, per diventare una fata adulta ho dovuto aspettare mille anni ed un giorno e come te abbiamo dovuto trovare sette alberi al posto dei fiori, per trovare la nostra parte materiale, ecco il segreto vostro degli gnomi e anche dei nani del bosco vicino. -

- Ho capito... Dovrei trovare con questi sette fiori, la mia parte emotiva... Capisco madre del mattino.

- La fata non riesce a trattenersi e nel guardare lo gnometto vestito di rosso e giallo, una carezza sul volto del piccolo lo fa arrossire.

- Vai ora, la tua strada è facile è il sentiero che inizia tra quella nube verde e finirà nella nube rosa è dentro la strada che sarà più difficile il cammino, troverai sette persone che ti daranno un fiore ma tu prima, dovrai scoprire quale sia dopo aver superato un indovinello. A presto Dwachin, ti aspetto qui. -

Lo gnomo in poco tempo sparisce nella nube verde ed ad un tratto si trova in un bosco fatto di alberi con i colori dell'arcobaleno ed una strada dorata piena di sassolini fatti di pietre preziose e terra d'oro.

Dopo una lega di cammino ed una bevuta ad un ruscello si trova davanti ad un recinto con delle pecore ed un'anziana donna seduta tra loro. L'anziana donna gli sorride e gli pone un indovinello se saprà risolverlo, avrà in dono il primo fiore:

- Piccolino quale fiore fa riferimento all'età più innocente e pura che ci sia? - Dwachin in quel momento ha uno sprazzo di ricordo della nonna che gli disse un giorno, fatti una collana di... è il simbolo di purezza per i bambini.

- La Margherita! - risponde pronto, intanto la vecchietta si trasforma in una fata bianca e le pecore in farfalle trasparenti, lei consegna al piccolo una margherita d'argento dicendogli di conservarla e che il primo passo è stato compiuto.

Felice Dwarchin prosegue e all'improvviso dopo una lunga camminata e dopo una discesa, trova davanti a se una stalla, un cavallo ed un falegname, il quale sorridendogli e dando il benvenuto gli dice:

- Piccolino qual'è il significato del fiore e dei suoi frutti che vengono usati per preparare liquori o infusi che aiutato a guarire i guerrieri? -

Lo gnometto ricorda che un giorno lo zio Dragan era partito con dei guerrieri per lottare contro dei Lycans e avevano fiasche di liquore, oh si se lo ricorda bene.

- Il Sambuco - risponde pronto, così il falegname dopo avergli consegnato un sambuco di cristallo si trasforma in un druido ed il cavallo in un puledro dagli occhi di zaffiro e sparisce davanti al suo sguardo.

La terza tappa è un giardino fatto erba azzurra e una bambina seduta al centro lo saluta e senza dire nulla, gli pone una domanda mentalmente, prontamente ricevuta dal piccolo gnomo:

- Carissimo amico mio, qual'è il fiore che diventa un unguento e profumo per togliere malattie e dare aroma alla pelle ed aiutare a cacciare le bestie dagli odori cattivi? -

Questa la sa, la mamma tiene sempre questo profumo in casa: - Il Giaggiolo -

- Bravo tesorino mio, eccoti un giaggiolo di lapislazzulo, tienilo con gli altri - la bambina subito si trasforma nella nonna di Dwarchin e scompare subito in una nuvola d'argento.

- Nonna... - fa in tempo a dire ma lei è già sparita, ma il suo viaggio deve continuare, ricaccia il groppo in gola e si avvia per quel sentiero brillante.

Quarta tappa e quinta, un ruscello divide una casetta di paglia e una casetta di legno e davanti ad esse un coniglio bianco e un gatto nero, insieme domandano al piccolo gnomo:

- Quali sono i due fiori, di cui uno simboleggia l'amore puro, il bene per l'altro e il corteggiamento? Ed il fiore che rappresenta l'eleganza nei gesti, temperanza nelle virtù e della bellezza interiore?

Pensaci su è facile - gli dice il coniglio mentre il gatto sorride leccandosi una zampa.

Dwarchin ricorda il fiore che suo padre aveva donato alla mamma nel giorno del loro anniversario, ma anche il fiore che il capo villaggio aveva appeso al taschino della sua giacca nelle grandi occasioni e prontamente in modo sicuro risponde ai due animali:

- Il Lillà e il Rododendro - i due animali si guardano e sorridono ed in quel momento si trasformano nella principessa e nel principe del paese del nord ghiacciato, e sparendo alla sua vista lei, bellissima gli manda un bacio con la mano.

Paonazzo di emozione si avvia di corsa verso la penultima tappa. Guarda nelle sue mani i cinque fiori magnifici: Una margherita d'oro, un sambuco di cristallo, un giaggiolo di lapislazzulo, un lillà di ametista ed un rododendro di velluto bianco e giallo.

La tappa che si trova davanti dopo un lungo cammino nel sentiero dorato trova una fontana ed un bambino seduto sul bordo che gioca con l'acqua cristallina. Il bambino gli sorride e come ha fatto precedentemente la fanciulla nel prato, gli parla con la mente:

- Ciao Dwarchin, sei cresciuto dall'ultima volta che ci siamo visti (Dwarchin proprio non lo ricorda quel bambino, ne aveva visti talmente pochi nella sua vita). ma devi però dirmi qual'è il fiore che signifa, speranza, ricordi ed amore lontano. - Per lo gnometto una leggera difficoltà, ricordava qualcosa ma non precisamente cosa, poi guardando il bambino nei suoi occhi color smeraldo, come un fulmine a ciel sereno ricorda il suo miglior amico Tylin, che era morto cadendo da un burrone inseguito da un lupo grigio, lo avevano seppellito nella terra coperta di "Non ti scordar di me" come li chiamano gli umani questi fiori bellissimi:

- Il Miosotis! - quasi urla mentre vede il bambino trasformarsi nel suo amico scomparso decenni prima, due lacrime erano spuntate dai suoi occhi mentre il suo amichetto spariva in una luce dorata sorridendogli.

Guarda nella sua mano sinistra il Miosotis di topazio blu apparso all'improvviso e lo unisce piangendo, agli altri cinque e si incammina lentamente un po' triste verso la sua ultima tappa. Dopo un lungo cammino pensieroso ecco che arrivato in cima ad un colle breve, dall'alto vede la nuvola rosa, l'uscita ma prima una bancarella chiude quel passaggio ed un signore ben vestito lo sta aspettando sorridendo, Dwarchin corre con i fiori nella mano destra e con la sinistra saluta quell'uomo elegante e si ferma davanti a lui.

Era un signore dai baffi rossi, gli occhi gialli e il vestito verde degli alti nani, quasi ne aveva paura ma il sorriso buono di questi lo assicura, non aveva nulla da temere.

- Eccoci all'ultima tappa mio caro piccolo Dwarchin, dovrai indovinare il fiore, l'ultimo che ti permetterà di diventare adulto ed entrare nelle sale degli anziani nel tuo villaggio al bosco di Farahys. - lo gnometto annuisce timidamente.

L'uomo prende un foglio di pergamena dorata e legge: "Caro mio piccolo figliolo, sai dirmi qual'è il fiore di vari colori il cui significato nel mondo umano e come dicono loro reale e fortunatamente non nel nostro (ed intanto i due sorridono alla battuta dello strano uomo), vuol dire commemorazione dei defunti mentre il vero significato è il re dell'autunno e dei Cervi dalle lunghe corna?" -

Non ha nessun dubbio il piccolo Dwarchin, ormai aveva capito molte cose in quel viaggio senza tempo, ogni fiore rappresentava un sentimento diverso dell'essere vivente e della vita stessa, gli pare di sentire una risata nella testa e un "bravo figliolo" simile alla voce dell'uomo dai baffi rossi e gli occhi gialli:

- Il Crisantemo! - quasi urla.

All'improvvivo un crisantemo di diamante appare nella sua mano e l'uomo si trasforma immediatamente nel re dei Nani.

- Maestà - grida il piccolo gnomo inginocchiandosi ma lui era già sparito nella nebbia rosa. Alzando gli occhi Dwarchin si ritrova nel punto di partenza con davanti a se la Fata Fauxia seduta sul prato fiorito che lo accoglie con le braccia aperte.

Dwarchin si alza e le corre incontro donandole i fiori mentre lei lo abbraccia forte: - Sei arrivato presto piccolino, dai a me questi fiori, la tua prova è stata largamente superata, me lo aspettavo ed ora sei uno gnomo grande, guardati. Davanti si materializza uno specchio fatato e lui non vede più quel piccolo gnomo dalla pelle liscia e dal vestito da ragazzino ma uno gnomo più alto, con baffi rossi ed un vestito di lana pregiata color del sottobosco con bottoni d'oro ed il cappello bordato di pelo d'argento.

- Ma, mia signora... - - Ssst piccolo mio, ora sarai Gwarchin, l'aiutante del druido Morstand del tuo villaggio, la tua sapienza ha superato i tuoi anni di vita, sarai un ottimo druido giovane che potrà mirare in alto. Ora vai e non dimenticare questo... -

Dwarchin alzandosi da lei, vede come una magia i sette fiori trasformarsi in una rosa bianca dai petali di seta.

- Questa è tua, questo sei tu, l'insieme delle doti che hai acquisito e che ti hanno infuso la saggezza superiore di druido, questa era la tua strada fin dall'inizio. Tutti temevano che non ce la facessi a superare le prove, invece io ne ero sicura. Ora vai al villaggio, ti stanno aspettando con tutti gli onori e questa rosa conservala per sempre un un vaso di cristallo. -

Dwarchin sta per correre sulla strada verso il villaggio, si ferma torna indietro e riabbraccia la bellissima fata regina del mattino dandole un bacio sulla mano, la risata cristallina di Fuxia si perde mentre scompare tra le braccia dello gnomo. Dwarchin non vede l'ora di essere al villaggio, lo stanno aspettando ma soprattutto ora è diventato un adulto, un druido.

Davanti a se erba, fiori e alberi sembrano inchinarsi al suo passaggio e lacrime di gioia che si trasformano in gocce di cristallo cadono dal suo viso. Ora si, è davvero felice.

Alla fine di quel viaggio, quando i sette fiori si trasformarono in una rosa bianca dai petali di seta, capii chi ero. Non solo un elfo del ghiaccio. Ma un essere capace di amare, ricordare, scegliere.

Quella rosa è ancora con me. In un vaso di cristallo, sopra la finestra della mia casa sull’albero. Ogni notte, quando la neve cade, la guardo. E lei mi ricorda che la vera magia… è crescere.

Epilogo: Il vento che non smette mai

Il ricordo di Mistral

“E mentre il vento lo spingeva verso Elyan, Mistral ricordò. La prima volta che vide Hivithuim. Il tremore. Il ciondolo. Il nero improvviso. E capì che quel giorno… era stato l’inizio di tutto.”

“Ora, da adulto, la città bianca non gli faceva più tremare le mani. Ma il cuore sì.”

HIVITUHIM , LA CAPITALE DEGLI ELFI, la città bianca. 

Mistral, io stesso dopo gli insegnamenti dei miei tutori durante la mia fanciullezza e raggiunti i cinquecentocinquanta anni che nella vita umana potrebbero essere i nove di vita di un piccolo essere, i protettori della mia madrina la Signora dei Ghiacci, decisero che fosse l'ora di farmi conoscere la capitale, la grandiosa città immersa nella natura creata da Hydiorr il grande Signore invisibile, nostro Padre, scoprii dopo che non era solo un viaggio di piacere e di commercio per loro. Quindi dovevamo lasciare la terra del ghiaccio, il mio paese con le case sugli alberi ed anche la mia lince e soprattutto vestirmi. Non che fossero proibite le nudità a patto che l'usanza era fatta nelle case private ma era soprattutto per educazione, evitando di mettere a disagio le persone con difetti fisici oppure per non imbarazzare i monaci e le monche del luogo. Gli Alti Elfi che abitavano a Hivithuim, sudditi del Re Vjngor e della regina Hashjr amavano molto l'eleganza e i vestiti raffinati, come il cibo e le case, così mi dissero i miei tutori. Case magnifiche mai viste in tutto il mondo, anche i vari abitanti dagli gnomi ed nani, ai pochi umani ed i Draven, esseri venuti da una terra lontana sprofondata nel grande mare, non vivevano come nelle città degli umani di terre lontane, in povertà e non aiutati dai potenti del luogo. Era come se tutti fossero fratelli nonostante in passato ci fossero state guerre fratricide, ma con l'avvento del bisnonno di re Vjngor aiutato dai Draven, vinsero la battaglia ed ora il Regno degli Elfi vive in pace da quasi trentamila anni. Il regno era stato diviso in quattro regioni più una speciale e rispecchiava il tutto, gli elementi della natura in cui tutto si era sviluppato attorno: . Balenhyr la contea maggiormente popolosa della capitale Hivithuim che con i suoi due milioni di abitanti rappresenta l'eterna primavera ed infatti qui la natura è rigogliosa e gli animali in comunione con gli esseri viventi. Una terra piena di alberi fruttuosi, fiori dai colori indescrivibili e molti paesi dai nomi strani ed ognuno con le sue specialità che portavano nei mercati della grandiosa capitale, una contea commerciale e turistica. . Talesund la contea del Principe Safyyr e di suo marito l'elfo della Luce Maeghet, rappresenta l'estate, situata a sud in ordine anti orario da Balenhyr, un territorio caldo, dal sole dorato che cura le malattie, dal mare dove ci si può bagnare e anche qui curare varie ferite e malattie e poi la sua città principale dove risiedono i due principi si chiama Vadjm (in onore del Dio del Vento Caldo), un grande porto da dove partono tutte le navi commerciali per il mondo conosciuto e da dove arrivarono i Draven, infatti la maggior parte di loro metà umani e metà giganti vivono felici in questa terra sacra e devota alla Dea dell'acqua Maares che ne è la protettrice. Da qui partono per la capitale tutte le stoffe, sete e profumi che si producono tra le verdi colline e le sabbie dorate. . Lhuzyfir la contea dell'autunno, situata ad est di Talesund, una terra collinare con vallate ricche di piante autunnali e dove si produce il più ricco succo di vino e miele di tutta la Terra degli Elfi, inoltre gli abitanti per la maggior parte gnomi, nani ed umani organizzano feste e banchetti per ospiti stranieri ma anche gare di forza a cui partecipano tutte le femmine di ogni etnia spesso vincenti tant'è che la loro dea protettrice è Kaljah i cui abitanti il primo giorno dell'autunno facevano in suo onore giochi olimpici con atleti provenienti dalle terre vicine, i più forti erano i Signori del Vuoto, esseri dalla pelle azzurra e blu dotati di forza mentale e capaci di creare spazi temporali dal nulla, i quali si dice che provengano da una terra situata nel cielo a nord del Regno. L'anziano Duca e governatore di Lhuzyfir è da almeno tremila anni il buon nano Fazar rimasto vedovo dalla nobile Tarizah e vive nel palazzo nel centro della città con i suoi innumerevoli figli. . Omaharj, è la contea dell'inverno a nord di quest'ultima appena descritta e confinante a ovest con Balanhyr, dove viviamo noi, dove la regina è la mia madrina. Una terra dove il ghiaccio ed il mare bluastro con animali acquatici come delfini e balene non recano danno alla nostra vita, infatti ci chiamano i Deos Ignudi che vivono in grotte oppure sugli alberi perennemente lucenti dal bianco della neve, del ghiaccio e delle luci dei piccoli insetti produttori di semi di oli, spezie, ci sono molti animali allevati per nutrire con la loro carne tutto il regno, sono molto richiesti per l'alta nutrizione ed inoltre la mia contea è ricca di oro, argento, altre pietre preziose nascoste in caverne luminose e anche di animali ritenuti sacri che vengono allevati per il loro vello che copre una volta rasato, con il loro pelo caldo e raffinato vengono creati abiti di ogni tipo per il Regno. La regina mia madrina è quasi invisibile a tutti ed al suo posto nella grande città di luce azzurra risiede suo fratello il Principe Adwar, che un giorno mi mandò un plico con dentro una lettera ed un ciondolo di zaffiro da tenere al collo, nella lettera mi scriveva che un giorno sarei dovuto andare al suo palazzo per conoscermi, grandi progetti erano pronti per me. Ma essendo troppo piccolo non ne capivo il significato. . Harad è una piccola contea al centro del Regno degli Elfi dove si trova il forte Kmjr la città dove si forgiano armi di ogni tipo e lì vivono e si allenano i più forti nobili, cavalieri e guerrieri, è l'esercito pronto alla difesa dove femmine e maschi di ogni etnia potevano combattere con ogni mezzo: dai guerrieri, ai lanciatori, ai cacciatori, ai maghi e stregoni. La piccola contea era racchiusa tra le montagne e per visitarla ci volevano permessi dai Pretores di ogni città delle contee le quali avevano una galleria unica che accedeva in quella terra formando una croce che fluiva all'aperto davanti agli enormi cancelli di ferro di Harad. Eccoci qui con i miei tutori e tre servi con cui avevo cantato e riso con loro durante i dieci giorni di viaggio, sarebbe bastato un Signore del Vuoto per farci arrivare in un breve lazzo di tempo nella capitale, ma mi sono divertito con i tre gnomi dei miei tutori. Non appena ho visto l'entrata della grande città, mi è assalita un'emozione forte che tremavo tutto, appena entrati ho visto il padiglione sulla destra dove chi entrava la sciava in quel del deposito le armi. Il padiglione aveva scritto sul portone d'entrata il nome e lo stemma della famiglia di mia madre ed in quell'istante ho visto tutto nero svenendo nelle braccia di Golfyr uno dei nostri gnomi..

 Il cielo era carico. Non di neve, ma di qualcosa che non riuscivo a leggere. Lohar era inquieta. I suoi occhi dorati scrutavano l’orizzonte, e il suo respiro era teso.

Camminavamo lungo il confine del Regno degli Alti Elfi, dove la luce si piega e il tempo si curva. Avevo sentito il richiamo. Un bambino in pericolo, forse. Un’ombra nel bosco. Qualcosa che non doveva essere lì.

Poi accadde.

Un urlo. Non umano. Non animale. Un richiamo profondo, antico, che attraversò il vento come una lama.

Lohar rispose. Con un ruggito che non avevo mai sentito. Un suono che veniva dal cuore, dalla memoria, dalla paura.

Dal nulla, tra le nevi alte, apparve un ghepardo delle nevi. Grande, maestoso, con occhi verdi come smeraldi. Si fermò davanti a noi. E dietro di lui… un elfo.

Alto quanto me. Pelle chiara, occhi verdi, capelli dorati che brillavano come fiamma sotto la luce del tramonto. Il suo mantello era rosso scuro, e dalle sue mani usciva una luce calda, pulsante.

Fuoco.

Mi guardò. Non disse nulla. Ma io sentii tutto.

“Mistral.”

“Elyan.”

Il tempo si fermò. Il vento si placò. Le nostre magie si toccarono — ghiaccio e fuoco — e non si annullarono. Si fusero.

Quella era la ricompensa. Non un trono. Non una corona. Ma un’anima che mi riconosceva. Che mi completava.

Da quel giorno, Elyan camminò accanto a me. Il fuoco e il ghiaccio non si combattevano. Si proteggevano.

Lohar e il ghepardo dormivano vicini. E noi, sotto le stelle, parlavamo senza parole.

Il vento non smette mai. Ma ora… non è più solo.

Giampaolo Daccò Scaglione

 

Mistral - L' Elfo del Ghiaccio (Prima parte)

 

Mistral – L’Elfo del Ghiaccio


Prefazione

Ci sono storie che non si scrivono. Si ascoltano nel vento, si leggono nei fiocchi di neve, si sognano tra le radici degli alberi. Questa è una di quelle.

Non so quando ho cominciato a immaginare Mistral. Forse era già lì, tra le pieghe del tempo, tra le ombre del bosco, tra le lacrime di un bambino abbandonato. Forse è nato da una domanda che non avevo mai osato fare: “E se il gelo fosse amore?”

In questo libro troverete un elfo che non cerca gloria, ma verità. Che non combatte per dominare, ma per proteggere. Che non si innamora per convenzione, ma per destino.

Troverete anche una lince, una rosa bianca, sette fiori, un ghepardo delle nevi, e un altro elfo — Elyan — che porta il fuoco nel cuore e la luce negli occhi. Troverete silenzi che parlano, magie che non fanno rumore, e un mondo che non ha bisogno di essere spiegato, ma solo vissuto.

Questa storia è per chi ha camminato nella neve senza sapere dove portasse il sentiero. Per chi ha amato senza confini. Per chi ha ascoltato il vento e ha trovato la propria voce.

Benvenuti nel gelo che scalda. Benvenuti nel cuore di Mistral.


Dedica

A chi ha camminato nella neve senza sapere dove portasse il sentiero.

A chi ha amato senza confini, senza tempo, senza paura.

A chi ha ascoltato il vento e ha trovato la propria voce.

Questo è per te, che sei luce nel gelo.

 

A chi ha creduto che la magia non fosse solo nei libri,

ma anche nei sogni che non smettono mai di nevicare.

A Elyan, al vento che non smette mai.

E a me stesso, che ho camminato per millenni per arrivare fin qui.

Mappa del mondo di Mistral:

 

  • Bosco di Azhavan – La casa sull’albero, cuore del ghiaccio
  •  
  • Montagne di Barazar – Il confine del tramonto
  •  
  • Bosco dei Sambuchi – Luogo sacro della memoria
  •  
  • Regno di Samrah – Comunità elfica, fratelli e gnomi
  •  
  • Sentiero delle Nubi – Prova iniziatica tra verde e rosa
  •  
  • Villaggio di Farahys – Dove si diventa druido
  •  
  • Regno degli Alti Elfi – La soglia della ricompensa
  •  

Capitoli:

  1. . Il risveglio nella neve
  2. . La casa tra le gocce di cristallo
  3. . Il legame con Lohar
  4. . La prima missione
  5. . Il dono della voce interiore
  6. . Il viaggio nel Bosco dei Sambuchi
  7. . La visione della Regina Ysheah
  8. . La notte delle stelle cadenti
  9. . Il bambino sulla riva del fiume
  10. . La soglia del Regno degli Alti Elfi
  11. . Ricordo: La prova dei sette fiori
  12. . Epilogo – Il vento che non smette mai (incontro con Elyan, l’elfo del fuoco)

 

Il risveglio nella neve

Mi ero svegliato un mattino. Sentivo un freddo profondo nel corpo, un gelo che non faceva male ma sembrava voler dire qualcosa. Aprii gli occhi e vidi una radura innevata: attorno a me, grandi alberi scintillavano sotto la luce del sole, bianchi e argento, così intensi da farmi quasi male agli occhi.

Ero solo. Sopra di me, una calda coperta di pelle d’orso. Indossavo abiti rossi di lana cotta e un mantello verde di stoffa pesante. Il mio naso era gelato, e dalla bocca e dalle narici uscivano aliti densi, come nuvolette bianche.

Mi spaventai. Dov’era la mia casa di legno chiaro, nel paesino di montagna vicino al grande lago? Dov’erano mamma e papà?

Urlai i loro nomi. Ma nessuno rispose.

Attorno a me, solo il silenzio ovattato della neve che scendeva lenta dal cielo. Cerbiatti, lepri e un alce mi fissavano incantati, immobili, come se sapessero qualcosa che io ignoravo.

Poi, all’improvviso, un vento gelido arrivò da nord. Mi colpì alle spalle, ma non sentii freddo. Anzi, quell’aria mi infuse un calore strano, profondo, come se mi stesse abbracciando.

Una nebbia d’oro apparve davanti ai miei occhi. Si trasformò lentamente in un piccolo cumulo di stelle dorate. E poi… apparve Lei.

Una donna elfica, bellissima, dai capelli d’argento. Mi sorrise appena vide i miei occhi pieni di pianto. Non parlò. Ma i suoi pensieri entrarono nella mia mente, chiari come parole.

“Norwenn…” “Piccolo mio, mio caro elfo. Tuo padre, un elfo senza cuore, ti ha lasciato qui nelle mie terre dopo aver scoperto che non eri suo figlio naturale. Tua madre, la principessa Rawynd, mia sorella da parte di madre, ti ha concepito con mio fratello Thaylen. Il tuo padre umano è duro, egoista, e ha fatto soffrire tua madre. Ma tu sei nato dall’amore segreto tra Rawynd e Thaylen. Tu sei Norwenn, e un giorno tutti ti chiameranno Mistral, l’elfo dei ghiacci. Io sono Ysheah, Regina della Neve. E sono tua parente.”

Ero confuso. Troppo piccolo per capire davvero. Ricordavo solo il volto dolce di mia madre, e quello serio, dagli occhi di ghiaccio e i capelli rosso fuoco, di colui che credevo fosse mio padre.

Ysheah, vedendomi impaurito, mi mandò vicino due cervi. Si sedettero accanto a me, guardandomi con occhi intensi, quasi umani. Lei continuò a parlarmi con la mente, in un silenzio che nessun altro poteva sentire.

“Vivrai qui per millenni, secondo gli anni umani. Avrai un compito da svolgere, anche se sei ancora piccolo.”

Si alzò. Una nuvola dorata la avvolse. Con un gesto della mano, una scia di stelle bianche mi circondò come una carezza. Il mio cuore si scaldò. Mi sentii pieno di amore.

“Da oggi potrai usare arti magiche con le mani e con la mente. Aiuta chi ha bisogno: umano, magico, animale, chiunque. Ma difenditi dai malvagi. Solo così crescerai in saggezza, bellezza e magia.”

Indicò un punto tra gli alberi. Mi girai e vidi un grande albero bianco, con occhi e bocca sorridente. In cima, tanti gnomi stavano costruendo una casa di legno pregiato.

“Quella sarà la tua casa. Ricorda, piccolo mio: solo aiuto e amore ti faranno crescere. Troverai tanti amici, ma le tue difese dovranno essere imperiose contro il male. Un giorno, molto lontano, riceverai la ricompensa per tutto questo. Non sarò io a dirti quale sarà, ma arriverà nel giorno giusto. E ogni volta che avrai bisogno, potrai invocarmi. Ora dimentica la tua famiglia: la tua nuova famiglia sono gli animali e gli esseri di questa terra incantata. Buona fortuna, Norwenn, piccolo dolce elfo.”

Così come era venuta, Ysheah svanì in una goccia trasparente, leggermente azzurra. Ma sentivo ancora la sua presenza attorno.

Da quel momento, la mia vita cambiò. Fatta di aiuti, di magia, di guerra al male. Un giorno lontano incontrai anche il mio vero padre, Thaylen. Ma mai più seppi nulla della mia famiglia d’origine.

Dopo molte avventure, tutti iniziarono a chiamarmi Mistral. L’elfo del ghiaccio.

La casa tra le gocce di cristallo

La casa era lì, sospesa tra i rami di un albero bianco che sembrava vivo. Aveva occhi, una bocca sorridente, e un tronco che pulsava come se respirasse. Gli gnomi lavoravano instancabili, intagliando il legno pregiato, incastonando cristalli, cantando melodie che sembravano fatte di luce.

Io osservavo tutto in silenzio. Ancora piccolo, ancora confuso, ma già diverso. Sentivo il gelo dentro di me non come una minaccia, ma come una forza. Le mie mani, quando le sfioravo tra loro, lasciavano scie di brina nell’aria.

La casa cresceva giorno dopo giorno. Aveva pareti di legno chiaro, finestre di vetro incantato, e luci che si accendevano da sole al tramonto. Gli gnomi mi chiamavano “piccolo vento”, e mi portavano bacche, miele, e racconti antichi.

Una sera, mentre il cielo si riempiva di stelle, uno di loro — il vecchio Garlim — mi portò una sfera di ghiaccio. Dentro, danzavano fiocchi di neve che non si scioglievano mai.

“Questa è tua, Norwenn,” disse. “È il tuo cuore. Non quello che batte, ma quello che guida.”

La tenni tra le mani, e sentii un fremito. La sfera si illuminò, e il gelo si fece luce. Era la mia prima magia.

Il legame con Lohar

Era notte. Una di quelle notti in cui il cielo sembrava una distesa di cristalli, e il silenzio era così profondo da sembrare sacro. Io sedevo sul ramo più alto della mia casa, le gambe penzoloni nel vuoto, il cuore pieno di domande.

Avevo vissuto settimane nel bosco di Azhavan. Gli gnomi mi avevano insegnato a riconoscere le piante, a parlare con gli alberi, a leggere le tracce nella neve. Ma dentro di me, qualcosa mancava. Una voce, una presenza, un respiro accanto al mio.

Fu allora che lo sentii.

Un suono lieve, come neve che si spezza. Mi voltai, e tra i rami vidi due occhi dorati. Una lince. Grande, fiera, con il pelo argentato e le orecchie appuntite come corone.

Non fuggì. Mi fissò. E io, senza sapere perché, allungai la mano.

Lei si avvicinò. Posò il muso sulla mia pelle. E in quell’istante, qualcosa si aprì.

Un legame. Non fatto di parole, ma di gelo e luce. Sentii i suoi pensieri, le sue emozioni, la sua storia. Era sola, come me. Era nata nel cuore dell’inverno, e aveva perso tutto. Ma non aveva mai smesso di cercare.

“Lohar,” dissi. “Questo sarà il tuo nome. E tu sarai la mia compagna.”

Lei non rispose. Ma si sedette accanto a me, e da quel momento non mi lasciò più.

Da quel giorno, Lohar fu la mia ombra, il mio specchio, la mia forza. Mi aiutava a cacciare, a proteggere, a meditare. Dormiva accanto a me, e quando sognavo, sognava con me.

Il gelo non era più solitudine. Era casa.

La prima missione

La neve cadeva lenta, come se il tempo avesse deciso di rallentare. Io camminavo accanto a Lohar, tra i sentieri ghiacciati del bosco di Azhavan. Il silenzio era profondo, ma non vuoto. Ogni ramo, ogni fiocco, ogni respiro sembrava custodire un segreto.Fu Lohar a sentirlo per prima. Si fermò, le orecchie tese, il muso rivolto verso nord. Io chiusi gli occhi, e lasciai che il vento mi parlasse.

Una voce. Debole, spezzata. Un richiamo.

Seguimmo il suono, attraversando radure e colline innevate, fino a una piccola riva. Lì, tra le radici di un albero spezzato, c’era un bambino. Avvolto in stracci, tremante, con gli occhi pieni di paura.

Mi avvicinai piano. Lohar si sedette accanto a lui, come faceva con me. Il bambino non parlava. Ma i suoi occhi dicevano tutto.

Era stato abbandonato. Come me, tanti anni prima.

Mi inginocchiai. Sfiorai la sua fronte con le dita. Una luce azzurra si sprigionò dalla mia mano, e il gelo si trasformò in calore.

“Non temere,” gli dissi. “Ora sei al sicuro.”

Il bambino chiuse gli occhi. Dormì per ore, mentre io e Lohar vegliavamo su di lui. Quando si svegliò, non chiese nulla. Ma mi guardò come si guarda un fratello.

 Quella fu la mia prima missione. Non una battaglia, non una magia spettacolare. Solo un gesto. Un abbraccio nel gelo.

Da quel giorno, capii che la mia forza non era solo nei cristalli che sprigionavo dalle mani. Era nella capacità di ascoltare. Di accogliere. Di ricordare.

Il dono della voce interiore

Il bosco dormiva. Non c’era vento, né canto, né luce. Solo il respiro lento degli alberi e il battito lontano della terra.

Io sedevo accanto a Lohar, sotto il grande albero dalle gocce di cristallo. Avevo chiuso gli occhi, lasciando che il silenzio mi avvolgesse. Non cercavo nulla. Ma qualcosa cercava me.

Fu come un sussurro. Non un suono, ma un pensiero. Una voce che non veniva da fuori, ma da dentro.

“Tu puoi ascoltare ciò che non viene detto.”

Aprii gli occhi. Lohar mi fissava. E capii che era lei a parlarmi. Non con la bocca, ma con la mente.

“Da sempre ti parlo. Ma ora tu puoi sentirmi.”

Mi alzai, confuso. Camminai tra gli alberi, sfiorando le cortecce, le foglie, la neve. Ogni cosa sembrava viva. Ogni cosa aveva una voce.

Un ramo mi disse di non spezzarlo. Una pietra mi raccontò di un’antica caduta. Un fiore mi chiese di non coglierlo.

E io… ascoltai.

 Quel giorno scoprii il dono della voce interiore. Non era magia. Era presenza. Era rispetto. Era amore.

Da quel momento, non parlai più come prima. Le parole erano lente, inutili. Il pensiero era più veloce, più puro, più vero.

Potevo comunicare con gli animali, con gli alberi, con gli spiriti del ghiaccio. Potevo sentire il dolore di chi non sapeva esprimerlo. Potevo consolare senza toccare, proteggere senza combattere.

Il viaggio nel Bosco dei Sambuchi

Il vento era diverso, quel giorno. Non tagliava, non cantava. Sussurrava. Avevo deciso di lasciare per qualche tempo la mia casa sull’albero. Sentivo un richiamo, un’eco lontana che mi portava a ovest, dove il sole tramonta dietro le montagne di Barazar. Lì, tra le radure nascoste, si trova il Bosco dei Sambuchi.

Un luogo antico. Profumato, silenzioso, vivo. Ogni albero sembrava ricordare qualcosa. Ogni foglia, un pensiero. Ogni fiore, una memoria.

Camminavo piano, con Lohar al mio fianco. Il suo passo era felpato, il suo sguardo attento. Io invece ero altrove. Dentro.

Ricordavo. Il giorno dell’abbandono. Il freddo sulla pelle. Il nome di mia madre urlato nel vuoto. Il volto di mio padre — o di colui che credevo tale — duro, distante, incapace di amore.

Mi fermai sotto un sambuco in fiore. Sfiorai i petali con le dita. Il profumo mi avvolse, e qualcosa si sciolse dentro di me.

“Non sei più quel bambino.”

La voce era mia. Ma anche del bosco. Era come se gli alberi mi stessero parlando, come se il dolore fosse diventato linfa.

Sedetti tra le radici. Lohar si accovacciò accanto a me. E per la prima volta, piansi. Non per tristezza. Per liberazione.

Il Bosco dei Sambuchi mi ha insegnato che il passato non si cancella. Si accoglie. Si trasforma. Diventa parte di noi, come il gelo che non brucia ma protegge.

Da quel giorno, ogni volta che passo tra quei fiori, sento la voce di Ysheah. E quella di mia madre. E quella di me stesso, bambino.

Giampaolo Daccò Scaglione