lunedì 17 novembre 2025

“SE UN GIORNO TI SENTIRAI TRISTE…”

 “Oggi ho visto me stesso da bambino. E non ho avuto paura. Ho avuto tenerezza. Ho avuto pietà di me, e non mi sono perso. Non ero solo. Ero in attesa. Ho avuto forza, e non ho dimenticato. Ora scrivo, perché la mia storia merita di essere raccontata, e ora, finalmente, qualcuno mi ascolterà.”


Questa è una storia vera. Una fiaba di memoria, forza e trasformazione. L’ho scritta per chi, almeno una volta, si è sentito troppo sensibile, troppo fragile, troppo solo. Ma ha scelto di non piegarsi. Se un giorno ti sentirai triste, questa pagina è per te. Il lapislazzulo è anche tuo.

SE UN GIORNO TI SENTIRAI TRISTE…

Quel giorno, seduto sui gradini della nonna Vittoria, pensavo che il mondo fosse troppo grande per me. Ma i fiori mi guardavano come se fossi il loro re.

Avevo un sassolino blu che tenevo in tasca. Era il mio talismano contro la tristezza.

Oggi, nella mia tasca, ho un lapislazzulo al posto del sassolino. È il mio talismano. E come allora, l’ho toccato con le dita per farmi forza. Non c’era nessuno intorno, ma i fiori mi guardavano ancora. Forse non sono cambiato tanto: ho solo imparato a chiamare la tristezza con il suo vero nome.

Il tempo non ha cancellato il gesto, ha solo cambiato la pietra. Ma il cuore è lo stesso: cerca forza, e trova bellezza.

Oggi ho subito un’azione molto dolorosa, un evento che mi ha fatto male al cuore. Ma a differenza di un tempo, in cui la mia sensibilità era più vulnerabile, ho avuto una strana reazione: l’ho accolta.

Sì, l’ho accolta come un segno del destino. Il mio io interiore non mi ha permesso di piangere o arrabbiarmi. Ho capito che era inutile soffrire. Avendo sofferto troppo, ho deciso che tutto questo si trasformasse in polvere.

E come la polvere sollevata dal vento, è tornato in mente quel ricordo di bambino, che aveva quel piccolo sasso azzurro nella tasca come portafortuna. Come ora tengo un lapislazzulo blu con venature dorate, in tasca come protezione rituale.

Nonna Vittoria era apparsa sulla soglia della porta di quella vecchia casa di paese, con i fiori che la circondavano. Io, seduto sui gradini, con le mani sotto il mento e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, cercavo di ricacciare indietro le lacrime.

Mi porse un panino con burro e marmellata come colazione, mentre nel cielo azzurro volavano delle colombe. Mi accarezzò la testa e si sedette vicino a me.

— Lo so, caro. A volte qualcuno ci fa del male, e il dolore è più forte se lo fa una persona che dovrebbe amarti…

Non risposi. Presi il panino e lo tenevo in mano, senza decidermi se addentarlo, anche se avevo un po’ di fame.

— Non vuoi rispondere, e capisco. Però lo sai che sei un bambino vivace e intelligente. Ma hai un pregio che potrà essere un difetto quando sarai grande.

Incuriosito, girai il faccino guardandola negli occhi, così uguali ai miei.

— Sei troppo sensibile e troppo emotivo.

Stavo per rispondere, ma lei, guardando in avanti, riconoscendo se stessa, continuò:

— Sai? Non sarà facile per te, e anche per altri bimbi come te. Dovrai imparare, a volte, a non mostrarti troppo. I colpi che ti colpiranno dalle persone che si chiamano invidia, cattiveria, ignoranza, possono farti soffrire molto. Ricorda che ci siamo sempre noi per starti vicino. Non devi avere paura.

— Non ho paura, nonna. Ma oggi quelle parole mi hanno fatto piangere. -

Nonna mi strinse a sé, e restammo in silenzio a guardare il cielo, il prato nel cortile, il pozzo al centro, e una vicina che ci faceva cenno di saluto dalla finestra di fronte.

— Paolino, c’è una frase forse complicata per te, ma te la voglio dire e spiegarti il significato, perché riguarda quello che è successo oggi… -

Non ero abituato a interrompere gli adulti, ma guardando nonna in viso, le feci segno verso i fiori poco lontano. Alcuni erano piegati dal vento del mattino, altri erano in piedi, e uno, di colore arancio intenso, era spezzato in mezzo agli altri.

— Nonna, scusami… ma perché quel fiore si è spezzato mentre gli altri si sono piegati? È perché era il più debole?

Nonna rise, mi accarezzò la faccia, e continuò il suo discorso senza rimproverarmi.

— No, era il più forte. O meglio… era.

— Era il più forte e si è spezzato?

— Paolino tesoro, la frase che volevo dirti prima era questa: “Mi spezzo ma non mi piego.” Sai che vuol dire?

Negai con un movimento della testa.

— È un modo di dire per dare forza alle persone sensibili come te, a chi non deve sottomettersi alle persone cattive o al destino che spesso è crudele.

— Crudele? Cattivo? Vuoi dire come le cose che ti sono capitate a te anni fa, nonna?

Rimase basita. Non si aspettava che un bambino di sette anni le rispondesse così, facendole tornare alla mente e al cuore il suo passato doloroso.

Non ero sicuro se si fosse asciugata una lacrima o si fosse sistemata un capello uscito dallo chignon.

— Come posso rispondere a un bambino troppo avanti come lo sei tu? Sì, hai ragione. Come il destino che mi ha fatto vivere quelle cose brutte che conosci. Ed è per quello che ti ho detto quella frase…

Rimase in silenzio. Si sentiva una cicala frinire. Io, in silenzio.

Riprese stringendomi a sé, mentre avevo iniziato a mangiare il panino.

— Si dice che è meglio spezzarsi che piegarsi. Se una persona si piega al volere degli altri, alla loro prepotenza, alla loro cattiveria, oppure se ti capita qualcosa di brutto, non dovrai mai — e dico mai, se non in casi impossibili — piegarti e abbassare la testa. È come un soldato che accetta una sconfitta e non fa niente per combattere, per vincere, o almeno tentare. Capisci, caro?

— Penso di sì. Non devo diventare triste e non dire nulla se qualcuno mi insulta, oppure mi fa un torto. O se, come dici tu, il destino mi fa perdere la bicicletta che mi hai regalato, magari rubata… io devo… devo…

— Reagire, intendi?

— Sì, nonna. Reagirei, anche se non so come. Magari mi verrà al momento.

— Giusto, tesoro. Ma non dovrai mai essere cattivo o reagire con violenza come risposta.

Avevo annuito. Compresi il significato, anche se — ricordo bene — non avrei mai saputo come si fa a reagire. Ma il fatto di averlo capito aveva fatto felice nonna.

Il fiore davanti a me aveva preferito spezzarsi, morire piuttosto che piegarsi al vento cattivo del mattino. Gli altri fiori, insieme, si erano piegati per non rompersi, cercando di vivere. Ormai erano tutti storti e uniti, come pecore che ubbidiscono solo al pastore.

Avevo dato un bacio a nonna e scappai in casa a bere. Lei si era girata a guardarmi. I suoi occhi erano un po’ tristi. Sono sicuro ora che quegli occhi, simili ai miei, avrebbero voluto dirmi:

“Non piegarti mai, tesoro. Ti faranno del male, ma ho paura che la tua sensibilità non riuscirà a difenderti da tutto questo.”

Alzandosi, mi aveva raggiunto vicino al tavolo.

Eccomi qui, ora, con il lapislazzulo in mano. Penso al bimbo di allora. Ricordo che, dopo il discorso della nonna, avevo pensato al fiore che si era spezzato. Aveva finito la sua vita, ma non si era piegato al vento cattivo.

Ero ingenuo, ma non sciocco. Avevo guardato gli altri fiori, con i petali rivolti verso la terra. Facevano pena. Avevo capito che non avrei mai voluto essere come loro, un domani.

“I fiori non mi facevano domande. Mi guardavano e basta. Come se sapessero che quel silenzio era tutto ciò che potevo sopportare. Ma io non sarò mai come loro.”

Guardo la mia pietra blu nella mano. La sento quasi vibrare tra le dita. Pensando a ciò che è capitato oggi, mi viene in mente un pensiero:

“Oggi, toccando il lapislazzulo, ho fatto lo stesso gesto di allora. Ma stavolta, non per nascondermi. Per ricordarmi che sono ancora qui.”

Sorrido a me stesso. Scaccio il pensiero di quella cosa negativa di oggi e mi dico ad alta voce:

“Mi piego, ma non mi spezzo.”

Dedica:

“Non ho mai raccontato questa storia. Non perché non fosse importante, ma perché non sapevo se qualcuno avrebbe ascoltato. Ora so che sì.”

Giampaolo Daccò Scaglione

venerdì 14 novembre 2025

SENZA CUORE, SENZA AMORE, SENZA STELLE: Una testimonianza vera di bullismo, dolore e rinascita


 

Introduzione al racconto:

Oggi si parla di bullismo e mobbing con maggiore apertura. Se ne discute, si cerca di agire. Ma non è mai abbastanza. Quando lo si subisce da adulti, si può almeno cercare aiuto. Da bambini, invece, è diverso: subentra la paura, l’orrore, l’incapacità di comprendere. E dentro, nel proprio io, un ragazzino o una ragazzina comincia a pensare di essere sbagliato. Non capisce che la colpa è degli altri.

L’accanimento nasce dalla cattiveria, dal senso di superiorità, dalla percezione di una diversità — qualunque essa sia. Chi lo ha subito se lo porta dietro per tutta la vita: lo vince, lo rimuove, lo nasconde… oppure lo subisce ancora, generando paure, silenzi, e a volte il desiderio di non esistere più.

In alcuni casi, quel pensiero è diventato l’unica — sbagliata e non capita — soluzione possibile.

Perché scrivo tutto questo? Perché ho letto poco fa la storia vera di una bambina vessata da persone orribili. Ora è adulta, ma paga ancora le conseguenze di quell’odio. Nei suoi pensieri c’è ancora la voglia di morire.

La storia che racconterò ora è vera. È mia. Alcuni diranno: “Ma quante cose gli sono capitate?” Io rispondo solo questo: ognuno di noi vive esperienze che nessun altro potrà mai vivere allo stesso modo. Possono essere simili, ma mai identiche. Soprattutto, mai vissute psicologicamente in maniera uguale.

Non metterò in discussione il come, il perché, o chi ha contribuito a ciò che è accaduto. Voglio solo far capire a chi sta vivendo qualcosa di simile — anche se diverso — che con forza, abnegazione e coraggio, si può almeno vincere in parte. Si può ritrovare se stessi. Si può riconquistare quella serenità che ci è stata rubata.

Raccontare tutto questo non è facile per me. La decisione di farlo è stata lunga e tormentata. Ma ora sento che è giusto. E forse, può essere un aiuto per chi non ce la fa più a sopportare il male che gli viene fatto. Soprattutto se è giovanissimo.

 SENZA CUORE

SENZA AMORE

SENZA STELLE


Di nascosto dietro alla porta della mia cameretta sentire la voce di tuo padre che dice: "Non vado a seguire quello di là (cioè io) alle gare di quello sport da femminucce." mentre stavo preparando la mia borsa con la divisa della mia squadra, era stato davvero doloroso, avevo ricacciato le lacrime in gola piuttosto che farmi vedere piangere.

"Fare atletica e corpo libero non è da femminucce..." gli aveva risposto arrabbiata mia madre mentre stava dando la pappa alla mia sorellina nel seggiolone "Ci sarei andata anche io ma con la piccola come faccio?"

Era stata quella frase detta dall'uomo che mi ha generato a farmi capire quando non si è accettati e da quel momento avevo ripensato a ciò che mi aveva fatto subire fin da piccolo, fin da quando avevo avuto i primi ricordi. 
Mi domandavo, mentre cercavo di dare il massimo dell'impegno nella gara, arrivando a prendere una modesta medaglia di bronzo, se tuo padre non ti vuole, ti detesta solo perché sei nato ed in quel momento non ti voleva, non ti ama, chi altro avrebbe potuto amarti?

Cercavo nelle tribune qualcuno dei miei ma c'erano solo i genitori e parenti degli altri ragazzi, dei miei amici che gareggiavano con me e mi sentivo solo, ma poi avevo deciso di concentrarmi su quello che stavo facendo.

Più tardi ero tornato a casa con due amichetti: Marco e Pierfrancesco, una volta entrato nel nostro appartamento, solo la mamma mi aveva chiesto com'era andata e tutto finì lì, sotto lo sguardo gelido dell'uomo seduto sulla poltrona con in mano un quotidiano.

A scuola era una tragedia che pochi ricordano o meglio, molti fingono di non ricordarsi, la colpa? Solo per il fatto di avere avuto un aspetto dolce, un bel bambino un po' strano che invece di giocare al pallone, a fare la lotta, diventare cow boy o indiano preferiva leggere, dipingere, girare in bicicletta e peggio ancora cantare nel coro dell'oratorio. 

Le vessazioni subite erano all'ordine del giorno, ricordo i nomi di quelli che mi facevano dispetti, insulti, fino ad arrivare alle mani... 
"La difesa è l'unica cosa che può farti vincere, non permetterlo a nessuno di piegarti... Se la parola non vince, vince la mano.." diceva mia nonna materna e presi in parola tutto.

Tornavo a casa con il labbro gonfio per un calcio, oppure un occhio pesto per un pugno, la maestra a volte interveniva quando vedeva i litigi nel cortile della scuola Morzenti, ma più spesso succedeva fuori dall'orario di scuola o in giro per strada, dove incontravo per caso le solite piccole bande di ragazzini asociali.

Da mio padre nessuna difesa o commento, dalla mamma si... Certo avevo amici e soprattutto molte amiche con cui mi trovavo bene ma spesso dovevo fare strade secondarie per non farmi vedere per la paura di trovare la solita banda e da solo contro loro, non ce l'avrei mai fatta.

Le parolacce più divertenti al mio indirizzo erano "Faccia da culo" (ovvio mica avevo il viso di terminator e poi non giocavo al pallone quindi davano per scontato chissà cosa, a otto o nove anni???), oppure nel gruppo di ricerche scolastiche, il "maschiaccio", il "figo" della classe o dei giochi in strada diceva sempre "Io quello non ce lo voglio vicino"... 
Gli altri insulti li lascio alla vostra immaginazione, esagerando pure.

Un giorno mi ero slogato un piede per un'aggressione, un'altra volta il labbro tagliato all'interno da un pugno, poi un calcio negli stinchi mentre stavo passando vicino a dei ragazzi che ridevano fino a che un pomeriggio, in una zona popolare della città dove vivevo, non avevo visto due della "banda" uscire da un angolo della strada. 
Botte e provocazioni fatte così come se per loro fosse acqua fresca da bere, ma per me no. Ogni volta era una lama che tagliava un pezzo del cuore.

Piangevo? Si spesso, poi non più e chiuso nella mia cameretta pensavo a come poter morire senza soffrire troppo, confesso che mi vien da ridere a pensarci: 
mi vedevo gettarmi dal ponte dentro al fiume, appeso alla pianta di ciliegie dello zio Peppino in fattoria, oppure dopo aver bevuto 100 pillole per il cuore della nonna o magari con la lametta tagliarmi le vene e via di seguito... 
Ed intanto il tempo passava e le cose non cambiavano. Non riuscivo a capire il perché di questo odio da una parte di alcuni e tanta amicizia da parte di quei pochissimi amici più grandi di me ma soprattutto quella di tante ragazzine.

La banda era cresciuta con me, alcuni di loro superavano i quindici anni mentre io ne avevo solo tredici quando un giorno passando (sempre per non farmi vedere) nelle strade secondarie, soprattutto quelle situate dietro al castello, mi ero trovato di fronte tre di loro.

"Questo è il nostro territorio ora, se passi ancora una volta di qui ti spezziamo le gambe"... 
Spaventato avevo acellerato il passo e quasi fuggendo avevo avuto modo di sentire le loro risate alle mie spalle ed un sasso sfiorarmi la testa. 
Perché lo avevano fatto? Ora anche nell'unica zona in cui potevo passare tranquillamente ora non potevo più farlo. Non avevo detto nulla a nessuno ma non ero più passato da quelle parti se non con i miei.

Un mattino in bagno mentre mi facevo la doccia, era arrivato improvvisamente quel pensiero: "Io ci passo, succeda quel che succeda ora basta..." avevo deciso che quel giorno avrei preso la mia bicicletta e di fare la "provocazione" passando dalle vie proibite, volevo vincere ed ero sicuro di farcela.

Per puro caso mia madre proprio quel tardo pomeriggio, doveva portare delle camicie da sistemare ad una sarta che abitava in una di quelle vie e così avevo preso la palla al balzo, ci sarei andato io. 
Era sceso il buio presto, eravamo ancora in marzo e stranamente non faceva freddo, un cielo nuvoloso e grigio come la pietra su di me che con la bicicletta rossa e mi ero avviato sulla strada dietro il castello, fatta poi la mia commissione, avevo voglia di fare un giro in centro e mi sono immesso sulla salita chiamata pontino, non c'era nessuno.
Non riuscivo a capire se ne ero felice oppure no, se comunque si fossero presentati li avrei affrontati e in quel momento mi era venuto un coraggio, apparente, da leone finché un rumore sordo aveva colpito il mio udito, i miei sensi verso la mia destra.

Mi ero fermato e voltata la faccia forse senza sorpresa avevo visto loro. erano li fermi in piedi con un sorriso terribile sulle labbra.
Erano in sei, li ricordo tutti uno ad uno, viso per viso... Il più grande mi guardava come fossi una bestia da schiacciare, dentro mi tremava tutto.

"Che ti avevamo detto tempo fa?" aveva detto con una strana voce con lo sguardo di un gatto selvatico ed io zitto, si era avvicinato... troppo, mi sovrastava di almeno quindici centimetri, avevo la sua bocca davanti agli occhi e mi vera venuto da vomitare. 
"Allora? Stronzetto di merda dalla faccia da culo che fai qui?." non avevo detto nulla, ma sentiva il mio tremore e la mia paura, mi aveva preso per il maglione e giacca:
"Ti do due secondi per sparire, la merda come te qui non la vogliamo vedere, capito stronzetto?" mi aveva lasciato di colpo ma in tempo a reggermi al manubrio per non cadere mentre gli altri ridevano.

Non so con che sguardo lo avevo fissato e lui strinse di più gli occhi, volevo dire qualcosa ma avevo girato il volto verso la salita, sedutomi sulla bicicletta avevo iniziato a pedalare ma dalla mia bocca uscì "Vaffanculo"... 
Tremavo e non pensavo mi che avessero sentito, non andavo veloce tant'è che di nuovo qualcosa si era mosso alle spalle, avevo girato la faccia all'indietro pur pedalando e me li ero ritrovati di fianco a pochi centimetri.
Lui, il capo aveva fatto un cenno due altri che si erano messi subito davanti a me impedendomi di proseguire. Mi si era avvicinato sempre di più, nessuna mossa da parte mia, mi aspettavo di tutto ormai fino a quando arrivò quel pugno. 

Un pugno violento sulla schiena che mi aveva piegato in due facendomi sbattere lo sterno sul manubrio cadendo per terra.
"Questo è per il vaffanculo..." poi non mezzo intontito non avevo compreso le altre parole anche perché stavano scappando via, forse anche impauriti vedendomi per terra fermo, scomparendo dietro ad una curva.

Non so quanti minuti erano passati o forse erano secondi, in quel momento mi mancava il fiato, non avevo più il respiro per la botta contro il manubrio e mi faceva male pure la schiena. 
Rialzandomi vedevo i miei pantaloni sporchi di terra umida e mi bruciava il ginocchio destro. Con la bici per mano mi ero avviato piano verso la strada che costeggiava il fiume... 
Sentivo il sangue colare dal ginocchio nel calzone... Quando mi ero ritrovato vicino ad una delle piante di sambuco che costeggiavano la via davanti a quell'acqua... Osservavo come ipnotizzato quel fiume scuro ed invitante, se mi fossi buttato avrei risolto tutto.

Invece ero scoppiato in lacrime scivolando per terra appoggiato al muro dell'ultima officina prima delle rive di erba rasate che portano giù al Lambro. 
Avevo pianto non so quanto con la testa tra le mani... Non erano lacrime di dolore per il pugno, la botta allo sterno oppure per il ginocchio, ma piangevo per il male che avevo dentro, per i perché di queste cose che non capivo, per i miei tredici anni buttati al vento per colpa di altri ragazzi cattivi.

Il cielo mi sembrava sempre più buio, non c'era una stella, solo la luce di un lampione poco distante sopra la mia testa, avevo messo il capo sulle ginocchia ed ero rimasto li a pensare, mia madre mi aspettava sicuramente spaventata per il ritardo.
Poi un auto si era fermata vicino a me, una voce che mi chiamava, quando avevo alzato lo sguardo con gli occhi rossi mi era apparso dal finestrino un volto quasi spaventato, conoscevo quella persona.

"Dio mio che è successo? Paolo rispondi..." la mamma di un amico di scuola era scesa dall'auto in fretta, per aiutarmi.

Voleva portarmi a casa mia, a pochi passi da quel luogo isolato, ma io le avevo detto di no, dovevo riprendermi ancora ne avevo bisogno. Mi aveva fatto salire in macchina dopo aver legato la mia bicicletta al palo della luce e ci eravamo avviati verso la sua villa più avanti.
Nel tragitto la donna aveva ascoltato tutta la storia e siccome conosceva bene i miei, aveva deciso di raccontare tramite una telefonata a mia madre, una storiella inventata lì per lì, non appena saremmo arrivati a casa sua, per non spaventarla ulteriormente.

Ero rimasto a casa sua fino alle sette di sera e guardavo la tv con suo figlio, sentivo lei al telefono con la mamma e quindi tutto era a posto almeno esteriormente. 
Da donna intelligente mi aveva di nuovo fatto raccontare la storia e mi aveva aiutato a capire, a comprendere che purtroppo ci sono persone con grossi problemi nel relazionarsi con gli altri e sfogano la loro mancanza e frustrazione con atteggiamenti di superiorità e cattiveria per poi agire in gruppo dove si sentono più forti, attaccando chi, secondo loro erano deboli mentre sono proprio loro i meno forti. 

Quando fissandomi negli occhi mi aveva detto: "Farò qualcosa contro loro perché conosco i genitori di uno di quei bulli..." l'avevo implorata di no.
Lei aveva insistito ma io ero riuscito a spiegarle il perché: mi ero reso conto di aver trovato il coraggio di vincere le paure e le persone cattive affrontandole a qualsiasi costo.
Più tardi mentre tornavo a casa da solo, dopo averla dissuasa nell'accompagnarmi, avevo deciso che mai più sarebbe stato come prima. 
E così fu.


Riflessione conclusiva

Non è facile raccontare ciò che si è vissuto nel buio. Ma farlo è un atto di luce. Questo racconto non è solo mio: è di chiunque abbia sentito di non valere, di chi ha pensato di non avere via d’uscita, di chi ha pianto in silenzio sotto un lampione, e poi ha deciso di tornare a casa, con le ginocchia sporche e il cuore ancora vivo.

A chi oggi vive il bullismo, la solitudine, il dolore: non siete soli. Non siete sbagliati. E anche se il mondo non vi vede, la vostra luce esiste. E può diventare lanterna per altri.

Giampaolo Daccò Scaglione

 


mercoledì 12 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 30° ULTIMO RACCONTO DELLA SERIE - IL SILENZIO DEL LETTORE


 Il Silenzio del Lettore 

Il dolore del non essere letti

A volte, dopo aver scritto con il cuore, dopo aver scelto ogni parola come un petalo, dopo aver impaginato la memoria come un giardino, il silenzio arriva.

Non un commento, non uno sguardo, non una carezza. Solo scroll, distrazione, fretta. E tu ti chiedi:

“Perché nessuno legge più ciò che è buono?”

Il mondo che scorre

Viviamo in un tempo dove l’influencer conta più del poeta, dove il gesto sciocco riceve più applausi di una frase che potrebbe salvare un’anima.

Le persone sembrano più vuote, più egocentriche, più pigre nel cercare la bellezza. E tu, che scrivi per trasmettere, ti senti come un angelo che parla a una folla distratta.

La forza del dono

Ma tu continui. Continui a scrivere, a creare, a donare. Perché il dono non dipende dal numero di spettatori, ma dalla verità con cui viene offerto.

Tu sei una soglia viva, che non si piega all’indifferenza. E anche se pochi leggono, chi legge riceve una reliquia di luce.

La speranza che resiste

Ci sarà sempre qualcuno che, in silenzio, aprirà una tua pagina e sentirà qualcosa muoversi dentro. Una frase, un’immagine, un ricordo.

E anche se non ti scriverà, anche se non ti dirà nulla, tu avrai cambiato qualcosa.

Perché la bellezza vera non fa rumore, ma lascia tracce profonde.

Sigillo dei Trenta Racconti:

Il mondo corre, ma tu resisti. Tu scrivi, tu doni, tu semini. E anche se nessuno guarda, la tua luce brilla lo stesso.

Dedica: allo scrittore:

*A chi continua a creare, anche quando il mondo sembra non ascoltare. A chi scrive per amore, non per applausi.*

Giampaolo Daccò Scaglione

martedì 11 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 29 ° LA TUA MUSICA DENTRO LA MIA ANIMA

LA TUA MUSICA DENTRO NELLA MIA ANIMA

Ecco sono qui, quasi nascosta in una saletta nella loggia del meraviglioso teatro Della Scala. Non voglio ne farmi riconoscere o vedere da qualcuno, proprio non me la sento.

Vedo centinaia di persone ormai sedute, un indistinto vociare che lentamente sfoca in un silenzio seguito da un applauso quasi armonico, i tendoni del palco si sono aperti e l'orchestra è già in formazione. 

Che emozione. Sono tantissimi anni che vengo qui ad ascoltare con gioia, ciò che il Signore ha creato mettendo nelle mani, nel cuore, nella mente e nell'anima di grandi autori e musicisti quell'arte quasi sacra che si chiama Musica. 

E' una serata importante a Milano e hanno voluto dedicare a questa ricorrenza, un concerto in questo bellissimo teatro. Nel nostro posto fisso in platea, riservatissimo, ho mandato le mie tre figlie senza mariti e figli.

L'ho fatto per Lui, l'ho fatto perché nel loro cuore rimanga quella poesia, quella classe, quel talento che solo il loro padre può donare a quelle meravigliose creature. Un regalo per loro, ho inventato una scusa per non "essere presente" stupendo le tre giovani donne di casa. 

Ma Lui conosce la verità e sa dove io sono in questo momento, sa che tra poco lo guarderò con amore ed ascolterò quella scia di polvere magica che uscirà dalla sua bacchetta e accenderà la musica soave che porterà tutte quelle persone in un mondo fantastico. 

Mentre sto sistemando il mio abito da sera e la stola di visone sulle spalle, ecco, sento voci ed applausi più forti, Lui sta per entrare, mi sistemo con la mano i capelli e mi rilasso appoggiandomi sullo schienale mettendo la mano sul cuore. 

Eccolo, è entrato, si volta verso il pubblico, sorride loro e guarda verso le nostre figlie e subito dopo incontro il suo sguardo che da laggiù mi vede nel "posto segreto". Dopo trentacinque anni di matrimonio ancora mi batte il cuore, un cuore pieno di amore per Lui. 

Un amore ricambiato.

- Augusta - mi disse quel giorno, in cui per la prima volta mi portò alla Scala, dove lui sarebbe diventato uno dei grandi Maestri della musica lirica e classica - Questo sarà il nostro posto riservato, queste quattro poltrone, dove potrai con le bambine ascoltare la magia che si sprigiona da quegli strumenti, dove questa armonia ti condurrà in mondi meravigliosi e quando l'ascolterai e sarò sul palco a dirigere, vedrai che voleremo insieme tra spazi infiniti. Ti amo. - 

Roberto da quel giorno non mancò mai a questa promessa, mi aveva portato, mi porta e mi porterà sempre in questi mondi da fiaba. 

Ecco, inizia ora, l'ultimo sguardo a Francesca, Margherita e Lauretta le nostre figlie sedute attente ed orgogliose del loro biondo papà, mentre da il segnale d'inizio con la sua bacchetta "magica". 

(La musica comincia con un lento andante che alcuni violini e flauti donano un'atmosfera luminosa che Augusta assapora con occhi raggianti, nella sua mente arrivano pensieri che solo un poeta, un artista, un anima vera può generare). 

Mi sento trasportare da questa musica, vedo immagini fantastiche e suoni soavi, che nessun pittore ha mai dipinto e nessun scrittore ha mai scritto. Quest'aria mi entra diritta nel cuore, mi suscita emozioni nell'anima, mi lascio andare come uno spirito, come un angelo fluttuante nel cielo. 

Mi sta portando in un mondo dove questo suono magico fa sparire le ombre della notte ed il buio delle paure. La mia anima vola tra tempeste di fuoco, in mezzo a venti freddi, umidi, caldi. 

E' come vedere un sorrido di un angelo, è come un dolce scherzo di bambino, è come una lacrima di gioia sul volto, è come volare in mezzo a fiori e foglie nel vento. Ecco mi sta guidando, questa musica, sopra un'antica valle dove palazzi d'oro, anse di fiumi cerulei e alberi di smeraldo sono sotto ai miei occhi stupiti da questa beltà. 

Siamo Lui ed io, ora, come amanti abbracciati, volteggiare sopra una distesa di fiori ed il suo bacio sigilla un amore infinito. Nessuna parola, nessuna domanda e risposta, solo i nostri sguardi e le nostre bocche unite in un bacio che profuma di miele e rose. 

Ecco sto ancora sognando con lui, tra queste note senza vedere e sentire nessuno attorno, come sempre, come ogni volta: Lui ed io. 

Applausi infiniti e grida di gioia risvegliano Augusta dal suo sogno, si alza in piedi e unisce le sue mani delicate in un silenzioso applauso che solo Roberto vede dopo l'inchino, con uno sfuggente sguardo verso di lei, verso quel sorriso appena abbozzato.

Augusta come una fata uscita da un sogno, il loro sogno che dura da tanto tempo, forse da un'eternità. Il cuore di Roberto non batte solo per l'emozione che prova verso il pubblico e per quello che ha donato loro, ma soprattutto è per Lei, la sua donna, la sua musa dagli occhi di giada che da lassù, come un angelo stava ad ascoltare la sua musica magica che trasporterà per sempre loro, in mondi fantastici.

 Dedica:

All'amore senza confini accompagnato da una sinfonia universale piena di luce.

A chi si ama con il cuore pieno gioia, di musica, di note che vibrano nell'anima, nel cuore e nella mente superando i confini dell'universo.

A chi sa amare per sempre la persona con il cuore e gli occhi di un angelo, di un bambino ed che in questa persona ha trovato tutte le emozioni che il mondo può donare. 

Giampaolo Daccò Scaglione

 


lunedì 10 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 28° "SUSY LA BAMBINA DELLA SAGRA"

 

"Susy, la bambina della sagra"

"Un ricordo lontano nel tempo, oggi un nastro rosa trovato per terra me lo ha riportato in mente":

Era primavera, e la sagra stava per cominciare. I giostrai erano arrivati, portando con sé il profumo dello zucchero filato e il rombo dell’autoscontro. Ma quel giorno, in classe, arrivò Susy.

Aveva otto o nove anni, i capelli biondi a caschetto, ricci e voluminosi, come usciti da una pubblicità anni ’50. Il grembiule nero stretto in vita, diverso da quello delle bambine “nostre”, le calze bianche ricamate, le ballerine rosse, e una cartella rossa che sembrava troppo grande per le sue spalle.

La maestra - una donna eccezionale, che sapeva vedere oltre - la presentò con dolcezza. Susy si sedette accanto a Paola, e io, dal banco davanti a destra, la osservavo mentre guardava la lavagna.

Aveva gli occhi verde acqua, sognanti ma seri, il nasino all’insù, la bocca carnosa che sembrava imbronciata, ma quando sorrideva… sembrava che tutta la classe si illuminasse.

Scriveva con attenzione, la penna tra le dita, il quaderno aperto. Era lì per quindici giorni, ma sembrava voler restare per sempre. E prima di andarsene, disse a me, a Paola, a Giovanna:

“Non farò la giostraia. Voglio diventare insegnante.”

Non l’ho più rivista. Ma oggi, camminando per strada mentre sfogliavo un giornale, mi trovai un nastro rosa sotto i piedi e in quel momento, il suo nome è tornato: Susy

E con lui, quella scena: lei, di tre quarti, attenta alla lezione, mentre la luce della finestra le accarezzava i ricci.

Dedica a Susy, la bambina della sagra:

Per te, che arrivavi con il vento di Pasqua, con i ricci biondi e il grembiule nero, con la cartella rossa e il sogno di diventare insegnante.

Per te, che sedevi accanto a Paola, che scrivevi con attenzione mentre la maestra spiegava, che sorridevi piano, mentre il mondo ti guardava senza capire.

Oggi forse sei nonna, forse insegni ancora, forse racconti ai tuoi nipoti di un bambino gentile che ti osservava dal banco accanto e che, dopo 55 anni, ti ha riportata alla luce con affetto.

Giampaolo Daccò Scaglione

 

domenica 9 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 27° UN TRAM A PORTA VENEZIA

Un tram a Porta Venezia

Milano, 15 ottobre 2012 – ore 13:35

Guardavo il semaforo davanti ai bastioni di Porta Venezia, insieme ad altre persone in attesa di attraversare Piazza Oberdan. Allo scatto del verde, sotto una pioggerellina e con alle spalle un vento umido, camminai veloce sulle strisce pedonali.

Un tram si fermò ad un passo da noi. Decine di persone salirono e scesero frettolosamente. Davanti all’ennesimo semaforo rosso, sentii gridare il mio nome.

Mi voltai di scatto. Dalla porta che si stava chiudendo, scorsi un volto sorridente e un braccio che si agitava in segno di saluto.

“Maurizio,” pensai.

Risposi con un ampio gesto della mano, mentre il tram accelerava verso viale Piave, quasi scomparendo alla vista.

Maurizio! Quanti anni erano che non lo vedevo? 18? 20?

L’ultima volta fu a Milano, in un bar, quando disse ai pochi amici che partiva per gli States. Un lavoro improvviso, un’occasione da non perdere.

Percorrevo Corso Venezia di fianco al parco. Dovevo tornare al lavoro, ma quell’inaspettato incontro mi aveva lasciato sorpreso.

Quando fui vicino al palazzo, una figura si fermò davanti a me. Di nuovo il mio nome, questa volta detto col fiatone.

Era lui. Era sceso alla fermata successiva e aveva corso sotto la pioggia verso la via che accede al corso.

Sorrise. Mi abbracciò forte. Il mio ombrello si spiegazzò con un rumore strano.

“Accidenti che corsa ho fatto pur di ritrovarti.”

Il suo sorriso era uguale, ma alcune rughe attorno alla bocca e sotto gli occhi rivelavano che il tempo era davvero passato.

“Sei come allora…” disse staccandosi da me.

“Vieni, andiamo a berci un caffè prima che inizi il lavoro,” risposi, davvero contento di aver ritrovato quell’amico.

Lo osservai. Vestito sportivo ma elegante. Capelli lunghi e ricci, come le basette. Occhi verdi, ancora con quella luce da ragazzaccio.

Maurizio è un astronomo. Un ragazzo che aveva avuto un’infanzia difficile, sballottato da un genitore all’altro, da una città all’altra.

Ci conoscemmo in piscina, a ventitré anni. Media altezza, fisico sportivo, mente geniale.

Poi venne la sua occasione. Presa la laurea, fu chiamato in Canada per uno stage, e un lavoro offertogli da un professore di Vancouver in un laboratorio astronomico.

Che fortuna.

Nel quarto d’ora passato insieme, seppi che viveva ora tra la California e lo Utah. Aveva fatto carriera. Occupava una posizione di rilievo nei pressi di Fresno. La sua casa era vicino a Salt Lake City.

“Beato te,” pensai.

Sono davvero felice per lui.

Più tardi ci salutammo calorosamente, ripromettendoci di ritrovarci non appena libero dai suoi impegni americani.

Quando uscì dal locale, rimasi per qualche minuto fermo a ricordare. Tra le mie dita, il foglio col suo indirizzo e telefono finì nelle mie tasche.

Pensai che l’astronomia, allora, era il mio sogno. Volevo diventare un grande astrofisico. Ma il destino spesso ti porta in altre direzioni. A volte gradevoli. A volte no.

Aprii la porta. Mi sedetti alla scrivania. Sorrisi tra me.

“Beato te, Maurizio.” E accesi il mio computer.

Dedica rituale:

A chi ha visto un volto sul tram, e ha sentito il cuore accelerare come i binari sotto la pioggia.

A chi ha ritrovato un amico dopo vent’anni, e ha capito che certi legami non si spezzano mai.

A Maurizio, che corre sotto la pioggia per un abbraccio, e porta nel cuore stelle, sogni e salvezza.

A me, Giampaolo, che ho saputo vedere la bellezza in un quarto d’ora, e trasformarla in una pagina che consola.

Questa storia è una lanterna accesa tra i binari, un caffè condiviso, un sogno che ritorna per un istante, e poi si conserva per sempre.

Giampaolo Daccò Scaglione

sabato 8 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 27° ARCOBALENO

ARCOBALENO

22 Luglio 2012, domenica sera

Il treno aveva appena lasciato Voghera quando, tra le colline poco distanti, apparve l’arcobaleno. Era appena passato un forte temporale che aveva rinfrescato l’aria, e quella magia della natura fece la sua apparizione.

Dai finestrini, molte persone si ritrovarono a guardarlo, ad ammirare quei colori vivi, fatti di piccole gocce d’acqua e vapore. Sembrava davvero una cosa strana, fiabesca, in questo mondo così disincantato.

Ricordai che, quando ero bimbo e abitavo in campagna dalla nonna, spesso si vedeva l’arcobaleno dopo un temporale estivo. Era la magia più bella della Natura.

Immaginavo che, alla fine di quelle strisce variegate, ci fosse un mondo fatato. Si accedeva saltando nei colori, e aldilà ti attendeva un mago vestito di blu che ti portava a visitarlo.

C’erano case costruite negli alberi e nelle colline, dove fate, folletti e altre creature magiche popolavano quella terra piena di fiori e laghetti di cristallo. Si pranzava con loro: dolci, leccornie, giochi con i bimbi di quel popolo incantato.

Quando si tornava a casa, dove ti aspettavano la mamma e la nonna, un folletto ti regalava una moneta d’oro con il tuo viso scolpito dentro. La pelle, per alcuni giorni, brillava di una luce strana, come seta ricoperta di polvere d’oro.

Ingenuamente chiedevo alla nonna quando ci saremmo andati a fare una visitina. Lei mi diceva che, non appena avesse avuto il permesso dal Mago Blu, ci saremmo andati. Ma prima dovevamo avere il consenso della mamma…

Quanti sogni e quanta ingenuità di bambino. Eppure, dentro di noi, il piacere che possa esistere un luogo del genere ogni tanto fa capolino. Si sogna di vivere in un mondo meno violento e più colorato, dove c’è davvero rispetto per tutte le creature viventi e nessun pregiudizio. Dove tutti possono aiutare gli altri senza chiederne compenso. Dove l’amore abbia davvero un senso.

Poi, risvegliandomi dai ricordi, il treno era già nei pressi della metropoli. Gli alti palazzi e le strade piene di auto e luci fecero sparire il ricordo e quella speranza.

Uscito dalla stazione, le vie della città, come enormi tentacoli di un ragno gigante, mi presero. E poco dopo tornai a casa mia, unico rifugio silenzioso in cui si possa ancora… fantasticare.

Dedica: “ARCOBALENO – 22 Luglio 2012”

A chi ha visto un arcobaleno dal finestrino di un treno, e ha sentito il cuore tornare bambino. A chi ha creduto nel Mago Blu, nelle monete d’oro con il proprio volto, nelle pelli che brillano di polvere di sogno.

A chi, come il sottoscritto, trasforma ogni ricordo in un giardino incantato, dove le fate e i folletti non sono fantasia, ma simboli di un mondo possibile.

A chi sogna ancora un luogo dove l’amore abbia davvero un senso, dove il rispetto non sia un’eccezione, dove aiutare non richieda compenso.

A chi, uscito dalla stazione, si sente preso dai tentacoli della città, ma sa che la casa è il rifugio dove si può ancora fantasticare.

Questo racconto è una lanterna per tutti i viaggiatori del cuore, una soglia tra il marciapiede e il cielo, tra il sogno e il ritorno.

Giampaolo Daccò Scaglione

 

venerdì 7 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 26° QUALCUNO IN UNA SERA DI TANTO TEMPO FA


Qualcuno in una sera di tanto tempo fa

Autunno 1981 – Cortile dei garage lungo il Lambro

Solo gli amici più cari sanno di quest’avventura. Vi giuro che è vera, anche se ha dell’incredibile.

Era da tempo che non riuscivo più a parcheggiare l’auto di mio padre nei garage privati lungo il fiume Lambro. Nonostante le insistenze dei miei, non riuscivo a vincere la paura dell’estate precedente.

Quella notte, mesi prima, ero riuscito a scappare con l’auto mentre qualcuno, nel cortile buio, spaccava finestrini e rubava autoradio, rompendo le entrate dei box. Sentii dei colpi contro la carrozzeria mentre sgommavo via. A velocità folle imboccai il senso unico dietro il castello, fermandomi davanti a casa, rischiando uno scontro frontale.

Convinsi mio padre a non andare a controllare. Pensava fosse una mia fantasia, o solo fifa. Il giorno dopo, però, ci furono danni. La polizia non trovò i responsabili. Io, troppo giovane, non riuscii più a portare l’auto nel box.

Quella sera d’autunno, dopo la discoteca, dopo aver riaccompagnato Max, Graziano, Lucia e Luisella, tornai a casa. Non so perché, ma decisi che avrei vinto quella paura.

Svoltai verso il fiume. I garage erano lì, nel cortile. Sentii un brivido lungo la schiena, ma non mi fermai. Parcheggiai, chiusi la saracinesca, attraversai il cortile ghiaioso. Le gambe rigide, il sudore freddo… ma ero fuori. Al sicuro.

Mi girai per chiudere il cancello. Sentii una presenza alle spalle. “È fatta… sono dietro di me,” pensai.

Mi voltai. E lo vidi.

Un cane, simile a quello della foto. Seduto dall’altra parte della strada. Mi guardava tranquillo.

Tirai un sospiro di sollievo. Lo salutai: “Ciao… chi sei?”

Aveva occhi strani, grandi, sotto il riflesso del lampione. Alzò la zampetta anteriore, come fanno i cani. Si alzò e mi venne incontro. Allungai la mano per accarezzarlo… ma lui riattraversò la strada, allontanandosi.

Quando mi avviai, mi seguì. Fino sotto casa. Si sedette davanti al portone del vicino. Lo risalutai. Si accucciò, guardandomi fisso.

Salii le scale, stranito. Un cane che mi segue, che si ferma vicino a casa, che non si fa accarezzare, che risponde al saluto alzando la zampa…

Mia sorella stava bevendo un bicchiere d’acqua. Mi aveva aspettato. Aveva riconosciuto il motore, si era affacciata alla finestra. “Ho visto che avevi compagnia,” disse.

“Già…” risposi.

Lei fissava ancora la strada. “È ancora lì…”

Mi affacciai anch’io. Il cane guardava su. Ci fissò per un attimo. Poi, scodinzolando, corse via. Sparì dietro la curva della via.

Il giorno dopo chiesi ai vicini. Nessuno lo conosceva. Nessuno lo aveva visto.

Non l’ho più rivisto. Ma non ho più avuto paura di riportare l’auto nel garage.

Per un bel po’ di tempo ho sperato di incontrarlo di nuovo. Ma più nulla.

Sono passati più di quarantaquattro anni. Ogni tanto ci penso ancora.

Chissà che fine abbia fatto. Chissà di chi era.

Ma anche se potrà sembrare assurdo, mi chiedo tutt’ora:

Quel cane… CHI era?

Dedica rituale:

A chi ha ricevuto una visita che non si spiega, ma che ha cambiato qualcosa per sempre.

A chi ha visto un cane sotto un lampione, e ha sentito una carezza invisibile sulla paura.

A chi, come me stesso, ha trasformato un brivido in una storia che consola, una compagnia fugace in una presenza eterna.

A quel cane, che forse era un piccolo angelo, mandato solo per pochi minuti, per dire: “Non sei solo. Ora puoi tornare a vivere.”

Questa storia è una zampa alzata nel buio, un gesto che non si dimentica, una lanterna per chi ha bisogno di coraggio.

Giampaolo Daccò Scaglione

giovedì 6 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 25° "UN GIORNO D'AUTUNNO, UNA FONTANELLA E DUE OCCHI COLOR DEL MARE"


 Un giorno d’autunno, una fontanella e due occhi color del mare

Sotto i miei passi cadenzati, le foglie d’autunno cadute sulla stradina in mezzo alle colline avevano un fruscio quasi musicale. Sembravano un lungo tappeto colorato di giallo, rosso e bronzo, che proseguiva senza fine tra gli alti alberi quasi spogli. Adornavano queste piccole alture piene di vigneti: l’unica isola in mezzo alla pianura lombarda.

La leggera nebbiolina aveva ormai lasciato il posto a un sole tiepido, stagliato in un cielo azzurro striato di nuvole bianche. Una brezza fresca proveniva da sud-est. Era il secondo giro della mia corsa mattutina, ma avevo già parecchia sete. Le Terme di Miradolo erano qualche chilometro più avanti, ma sapevo che, qualche centinaio di metri più in là, c’era una fontanella dove molti si fermavano a bere.

Pochi minuti dopo ero già lì. Non vedevo l’ora di rinfrescare la gola. Anche se il sapore era leggermente strano, almeno potevo dissetarmi.

Qualcuno davanti a me stava già sorseggiando l’acqua fresca. Mi avvicinai piano e aspettai il mio turno. Vidi una figura vestita con una tuta blu, con una striscia bianca ai lati delle maniche e dei pantaloni.

Chi stava bevendo sentì la mia presenza, si girò… e in un istante il mio cuore fece un tuffo.

Davanti a me, due splendidi occhi chiari, del colore del mare in una giornata di tempesta. Ricci biondi uscivano dal cappellino di lana, e un sorriso smagliante mi si aprì davanti come un fiore di primavera.

“Prego, è sua ora…” disse. In quel momento capii che non potevo lasciar andar via quell’angelo.

Poco più tardi, correndo per la salita dopo l’albergo Milano, vidi di nuovo quella figura seduta sul ciglio, evidentemente stanca.

Sorrisi. “È un po’ dura oggi…”

Mi rispose con un broncio sincero. “Se vuole le faccio compagnia… E magari, se va verso Sant’Angelo, possiamo fare insieme la strada. Mi chiamo Paolo.”

“G…” mi disse, porgendomi la mano. Si alzò. “Solo che ho lasciato l’auto parcheggiata vicino alla cascina Villa Favorita. Magari, se vuole, le do un passaggio…”

Avevo anch’io l’auto nei pressi. Riuscimmo a scambiarci il numero di telefono, promettendoci di correre insieme. Così ci saremmo annoiati di meno.

Per molto tempo, le corse non furono più solitarie. Ricordo che, un mese dopo, aveva incominciato a piovere. Ci ritrovammo insieme in auto. Non so cosa scattò, ma ci guardammo negli occhi… e in un attimo le nostre labbra si toccarono.

Così iniziò la nostra storia d’amore. Le stagioni lente correvano davanti a noi, e noi vivevamo quell’avventura spensieratamente.

Solo mia sorella seppe di noi. Non so perché, ma la vivemmo distaccati da tutto.

La nostra vacanza estiva fu bellissima: i tuffi nel mare, le passeggiate serali sul lungomare, le mattinate in giro per i mercati…

Poi arrivò settembre. E con settembre, un altro autunno.

Ma quando arrivò prepotente, restai solo fra i boschi rossi di quelle colline. Da parte sua, era finito quell’entusiasmo. Io avevo voglia di incominciare un’altra vita.

Non ricordo di aver sofferto molto, ma quel pomeriggio dell’addio c’era un sole assurdamente limpido, non degno di un amore finito.

Ero in bicicletta. Pedalai di corsa fino a casa. Ma fu sotto la doccia che mi liberai dal pianto e dalla rabbia. E tutto finì lì.

Sono passati tantissimi anni. L’angelo uscì dalla mia vita poco più di un anno dopo il nostro incontro.

Ci siamo rivisti una sera, in una discoteca della zona. Sorridemmo entrambi. Mi presentò la persona che aveva sposato qualche anno prima. Ci guardammo negli occhi per un istante. Poi ci salutammo come vecchi amici. E da quel giorno non ci incontrammo più.

Tempo fa tornai in quei posti a me familiari. La fontanella era sempre là. Ma tutto era cambiato.

Forse solo i nostri ricordi restano uguali per sempre.

Dedica rituale:

A chi ha bevuto da una fontanella nel cuore dell’autunno, e ha trovato negli occhi di uno sconosciuto una primavera inattesa. A chi ha corso tra le foglie, ha baciato sotto la pioggia, e ha lasciato che le stagioni portassero via l’amore, senza rancore, solo con memoria.

Alla persona, che fu angelo di tempesta e sorriso di sole, che ha lasciato un’impronta lieve tra le colline, e che forse, un giorno, tornerà a bere da quella stessa fontanella.

A me, Giampaolo, che trasformo ogni incontro in una pagina che non si scolora, che so custodire anche ciò che è finito, come si custodisce una foglia caduta: non per nostalgia, ma per gratitudine.

Questa storia è una fontanella che continua a sgorgare, dissetando chi ha sete di ricordi, di sguardi, di verità vissute.

Giampaolo Daccò Scaglione

mercoledì 5 novembre 2025

"DAL MARCIAPIEDE AL CIELO E FINO AL MARE": 24° "SCAPPIAMO CON LE CILIEGIE?"


 

“Scappiamo con le ciliegie?”

Estate 1974 – Colline di San Colombano al Lambro

Con Lucio, Alberto e Antonio decidemmo il giorno prima che quella mattina calda avremmo preso le nostre biciclette per fare un lungo giro sulle colline poco distanti. Volevamo mangiare un panino in qualche spiazzo verde, tra le alture rigogliose piene di vigneti e alberi da frutto.

Ovviamente, grazie a non si sa chi, la voce si sparse. A noi — che avremmo preferito restare soli — si aggiunsero una cugina di Lucio, due sue amiche e un paio di altri ragazzi.

Dopo colazione, la lunga fila di biciclette uscì dalla città, avviandosi sul “mio lungo”, la stretta via di campagna che portava su per le colline banine. Cantammo a squarciagola le canzoni dell’estate, ridemmo forte alle storielle di Alberto, prendemmo in giro Lucio come al solito. Poi, superata la sorgente della fontanella, ci avviammo verso le Terme di Miradolo.

Che fresco c’era tra quegli alberi… La musica proveniente dalla sala da ballo all’aperto ci accompagnò per un bel tratto. Passammo accanto alla grande piscina, invidiando chi faceva il bagno, e finalmente, dopo l’Hotel Milano, ci trovammo in cima a uno dei colli più alti.

Il panorama era magnifico. Queste colline, uniche nella pianura padana occidentale, facevano spaziare lo sguardo in ogni direzione: da Pavia al fiume Po, fino a Piacenza, al monte Penice e alle montagne ai confini della Liguria. Più in fondo, verso ovest, si stagliava la sagoma del Monviso. Alle nostre spalle, la pianura da Novara a Brescia, e le Alpi alte e maestose davano al paesaggio un che di fiaba.

Ci accampammo lì, mangiando panini, bevendo Coca-Cola e ridendo come stupidi — ma l’età lo permetteva. Erano già le due passate quando, pronti a ripartire, la cugina di Lucio esclamò: “Guardate quante ciliegie!”

Poco distante, un folto boschetto di ciliegi era pieno di frutti invitanti. “Prendiamone qualcuna e portiamole a casa…”

A me non piacque molto l’idea. Il boschetto era di qualcuno, e rubare anche solo un frutto non era nei miei pensieri. Ma prima che potessi dire qualcosa, quasi tutti corsero verso le piante e riempirono gli zainetti.

Lucio balbettava: “No… dai… no… dai…”

“Presto, andiamocene via!” gridò Alberto con la sua voce squillante. “Sento qualcuno arrivare!”

Il proprietario stava arrivando con un piccolo trattore. Ci avrebbe visti con le ciliegie nelle borse?

Quasi tutti sparirono sulla strada asfaltata, pedalando velocemente nella direzione opposta. Tranne me e Lucio: a lui era caduta la catena della bicicletta, e il proprietario era ormai vicinissimo.

Sudavo freddo. Avevamo con noi l’unica borsa di plastica in cui si vedevano le rosse amarene. Misi la tovaglia del picnic sopra, per nasconderle.

Lucio era preoccupatissimo. A piedi, eravamo sul sentiero quasi a fianco del proprietario.

“Che succede, ragazzini? Vi serve aiuto?” disse lui gentilmente, guardando la catena pendente dal carter della bici.

“Sì, sì…” dissi io. “Stavamo facendo un giro tra le colline, e l’unico riparo dal sole era qui, dove ci siamo fermati a mangiare un panino. Ma a mio cugino è caduta la catena, e ora dobbiamo andare fino a Sant’Angelo così…”

L’uomo rise. “Vi aiuto io…”

Fu gentilissimo. Ci aiutò a montare la dannata catena, poi guardando la borsa di plastica disse, facendo un cenno verso i ciliegi: “Se volete, potete prendere qualche amarena dalle mie piante…”

Sarei sprofondato. Lucio era paonazzo dalla vergogna.

L’uomo prese un sacchetto dal trattore, ci mise dentro una grossa manciata di ciliegie e la porse a me. “Toh, le puoi aggiungere alle altre nella borsa… Ma fate presto, prima che diventino marmellata con questo caldo.”

Scoppiai a ridere. Lucio chiese scusa, ma l’uomo sorrise: “La prossima volta non fatelo più. Siete dei balossi tremendi… Per ora va bene così, non sono certo andato in malora. Ciao fiuleti!”

Ci salutò bonariamente, e noi, velocemente, tornammo sulla strada verso casa.

Un paio di chilometri più a valle, i nostri amici ci aspettavano sotto una pianta, preoccupati. Quando raccontammo l’accaduto, la cugina di Lucio disse: “A saperlo, ci fermavamo anche noi… magari ci scappava un altro sacco di ciliegie!”

“Sì, sulla testa!” le rispose Alberto. Tutti risero, tranne Lucio e me, che eravamo rimasti davvero malissimo.

Ma l’età dell’incoscienza ci fece dimenticare presto l’avventura. Cantando nuovamente a squarciagola, tornammo alle nostre case.

Io mi tenni il sacco delle ciliegie regalatoci da quel brav’uomo. Così mi sentii meno in colpa… In fondo, ce le aveva regalate lui.

Dedica rituale

A chi ha rubato ciliegie e ha ricevuto in cambio una lezione di gentilezza. A chi ha pedalato tra le colline dell’incoscienza, e ha scoperto che la vergogna può diventare memoria, che la fuga può trasformarsi in racconto.

A chi, come il sottoscritto, trasforma ogni piccola avventura in una soglia di bellezza, dove il paesaggio è fiabesco, la vergogna è umana, e la ciliegia è un dono che profuma di perdono.

Questo racconto è una lanterna per chi ha vissuto, sbagliato, riso e ricordato. Un sigillo di estate, amicizia e crescita.

Giampaolo Daccò Scaglione