domenica 21 dicembre 2025

RITORNERAI?

“Ogni stazione è un confine, ogni treno un destino che passa. Le parole restano sospese, tra l’addio e l’attesa. Il treno porta via il volto, il mare custodisce l’eco. Ritornerai, almeno nel pensiero.”

RITORNERAI?

Sole caldo, nuvole bianche e leggere in quel cielo ceruleo luminoso, la risacca del mare si sente fino binari della stazione illuminati dal sole estivo.

Le palme ondeggiano al vento caldo mentre poche persone passeggiano sulla banchina tra vasi di oleandri aspettando l’arrivo di un treno che forse, portava amici o parenti in quella stupenda località di mare.

Lei e Lui vicini ma quasi da non toccarsi, sembrano due figure ferme in mezzo al movimento della vita, fermi, statici come due personaggi di un fumetto colorato a pastello ma con qualcosa di stonato nella scena, qualcosa di malinconico, qualcosa di triste.

- Ritornerai?

- Don’t know, io non saprei… Non te lo posso dire…

- Perché?

- Io…

- Tu?

- Ci essere tante cose che non tu no sapere, tante cose che fare male al cuore…

- Al tuo o al mio?

- Both… Entrambi… Maybe.

 L’accento inglese, gli occhi blu dalle ciglia scure di lei con quei lunghi capelli che volteggiano al vento, scrutano l’orizzonte fino al mare, mentre l’altoparlante della stazione annuncia l’arrivo di un treno proveniente da Ventimiglia.

 - Ritornerai?

- Vuoi una risposta a tutti i costi.

- Sì… Non posso stare qui ad aspettarti senza sapere se tornerai da me ancora.

 Gli occhi azzurri del ragazzo denotano un segno di sofferenza. Sa benissimo che quelli di lei, non li avrebbe più rivisti, se lo sentiva nel profondo dell’anima. Certe cose il cuore e la mente le sanno già, prima ancora delle decisioni prese con ponderatezza.

 Poi lo sguardo di lui penetra negli occhi di lei.

 - Ho tre figli e…

- Una famiglia da mantenere e a cui vuoi bene. Lo fai per loro, non ami più… Una bella casa, un ottimo lavoro e la certezza di un futuro sereno, programm…

- Stop… Wait…

- Wait? Aspettare cosa? Che tu vada oltre? Oltre a cose che conosco già, trite e ritrite, che dicono tutte le persone sposate all’avventura o all’amante di turno?

- You, tu non sei un’amante o un’avventura per me!

- Ah no? E cosa sarei allora, dimmelo!

- Un amore che non potrò mai avere… Per tutta la vita.

 L’uomo ride amaramente mentre un treno sfreccia poco più in là. I suoi capelli ricci e scuri ondeggiano al vento che porta via quella locomotiva, coprendogli il volto.

Non vuole credere agli occhi lucidi di lei, al suo dolore che ritene meno importante del suo. Ha tre figli, una famiglia in Inghilterra.

Era lì per riposo e convalescenza, un’anima sola che faceva i conti con una vita abitudinaria là e con questa, così breve e intensa, dove il mare e il sole erano la cornice.

Lui ha il cuore a pezzi.

 - Non ritornerò mai più… Ho deciso così! Sorry.

Colpito al cuore, si gira di spalle per andarsene via, ma dopo pochi metri si ferma, voltandosi verso quella figura appoggiata al finestrino del vagone. Il vento caldo che proviene dalle montagne davanti al mare fa volare la sua camicia bianca di lino.

Si riavvicina lentamente al vagone, con le mani in tasca.

 - Che ne sarà di noi?

- Non lo so… I could not tell you… Maybe we will come back to life forever, maybe with the guilty feelings…

- Io non ho sensi di colpa! Non ho nessuno che mi aspetta a casa, figli ed altro.

 Abbassa la testa. Prende il suo volto tra le mani e bacia la fronte della donna. Di scatto si allontana subito. Sarebbe salito sul vagone, avrebbe passato tutto il tempo con lei accompagnandola fino all’aeroporto di Nizza. Ma non poteva permetterselo: un minimo di rispetto verso me stesso c’era ancora.

 - Ritornerai… Nei miei pensieri per tanto tempo, lo sai?

- Sì, come ritornerai tu nei miei.

– Mi scriverai ogni tanto, per sapere come stai?

 Silenzio. Il suo viso si rivolge verso il capotreno che, da uno sportello, fa segno ad un collega l’imminente partenza del treno.

 - Lo farò, te lo giuro… I will, I will definitely write you. I will not tell you to swear, we never say this word.

- Ti amo.

 Silenzio. Il fischio del capotreno e la chiusura delle porte fanno partire rumorosamente quel treno bianco e rosso verso Nizza. Il volto di lei fisso su di lui, sembra una statua di cera bellissima. Poi mente seguiva il treno che aumentava la velocità, il viso della donna fuori dal finestrino e le sue labbra stanno dicendo qualcosa che lui comprende subito con una fitta al cuore:

 - I love you too.

Scompare subito dentro al vagone. Non ha voluto vederlo sparire lentamente da lontano. L’istinto di correre verso il treno, come in un melodramma ottocentesco, era salito nell’io più profondo dell’uomo.

 Invece, con uno sforzo tremendo, si volta verso la stazione e camminando lentamente si ritrova fuori da quell’inferno caldo, da quell’addio bruciante, da quella stazione delle partenze.

 Le lacrime gli scendono dal volto durante il tragitto fino all’albergo. Non vede gli oleandri accanto a lui, non vede il cielo azzurro sopra la sua testa, non vede il mare blu di fronte… Sente solo una parola nella mente, una parola inutile e senza risposta affermativa.

 - Ritornerai?

 “Ogni treno porta via un volto, ogni addio lascia un’eco. La domanda resta sospesa: Ritornerai?”

 Giampaolo Daccò Scaglione

sabato 20 dicembre 2025

GIORNI LONTANI


 GIORNI LONTANI

Per sempre nei miei ricordi, dedicato ai miei dad John and uncle Allen:

“Sul pontile del tempo, due amici ridono ancora, mentre l’onda diventa memoria.”

Un sole luminoso e giallastro scalda le spiagge di quel luogo verde e tranquillo del nord Europa, un sole che raramente è così benefico e caldo come oggi. 

Un vento tiepido proveniente da sud, sembra dare vita ed energia a quel posto di mare, regalando in quell’inizio d’estate luce e colori.

Un’estate che sempre non si può definire una stagione lì, quando c’è dura poche settimane prima di lasciare posto a giornate grigie e umide, uguali al colore del mare di quel periodo un po’ triste.

 Ma oggi il mare è di un verde smeraldo, increspato di onde bianche grazie al quel vento propizio che ha fatto riempire le spiagge quasi selvagge di quel posto.

 Qualcuno aveva fatto mettere dai gestori del lido cabine sdraio fatte di legno dove ci si poteva sedere su asciugamani colorati con la schiena riparata dal vento.

 Molte persone di ogni età erano sedute o distese sulla sabbia. Chi in pantaloncini e maglietta, chi in costume da bagno e qualche signora con prendisole vivaci, poco avvezze a spogliarsi nonostante la temperatura.

 Tanti sono i bambini che giocano con la sabbia creando castelli di sabbia o correndo con aquiloni colorati che grazie a quell’aria volavano in alto come gabbiani tinteggiati d’arcobaleno.

Due uomini anziani sembrano divertirsi gesticolando all’inizio del molo di legno bianco, sollevato di qualche metro che si estende verso il mare, dove altri individui passeggiavano godendosi la luce del sole ed assaporare il profumo di salsedine:

  • John! Ti ricordi quella corsa sul pontile del faro, mentre l’onda gigantesca ci inseguiva? -
  •  
  • Sì, io ricordo benissimo di essere rimasto senza fiato quando arrivammo sulla terra vicino al chiostro delle bibite. Ero fradicio, ma non ricordo se fosse sudore o colpa degli schizzi delle onde del mare. -
  •  
  • Spiritoso… Era sicuramente l’età non più verde caro mr. Harper e se proprio vuoi che ti addolcisca la pillola, diciamo che era un misto di entrambe le cose. A me piaceva sentire il salmastro sulle labbra, il profumo dell’oceano che sembrava infinito. -
  •  
  • Caro Allen ci sono ancora l’uno e l’altro ancora, non li senti? -
  • Sì, ma ora il mare è verde-blu e calmo, con qualche onda non proprio forte come quella che ci fece scappare, questo mi dà un altro tipo di sensazione… perché ridi? -
  •  
  • Perché lo guardiamo con occhi da vecchi fratello mio. -
  •  
  • Vecchio sarai tu, John. -
  •  
  • In due facciamo centosessant’anni, Allen… Torneresti indietro? -
  •  
  • Mai. Mi piacciono i ricordi. Tornerei solo se potessi rinascere, non rivivere i miei decenni, questo te lo assicuro. Vorrei una vita diversa, e tu lo sai. -
  •  

Allen e John erano amici fin dall’infanzia, le loro case erano confinanti, la diversità tra loro fu che John proveniva da una famiglia di mentalità aperta, stravagante, in piena salute e che fecero studiare lui e la sorella nei migliori collegi inglesi. Diventando poi nel corso degli anni personaggi noti nella società inglese.

 Allen invece nacque in una famiglia benestante di religiosi puritani già avanti con gli anni, la madre fin da piccola viveva con seri problemi di salute e forse per questo il biondo Allen era nato con una malformazione che non gli permise mai di vivere come tutti gli altri.

 Suo padre, un Vescovo anglicano dal carattere implacabile come la spada di Damocle, lo mise fin da piccolo in vari collegi di lusso gestiti da sacerdoti severi, trattato sempre con cura ed affetto da dottori, infermieri, insegnanti ma soprattutto dai suoi tutori alternatisi nel corso degli anni.

 Visse da allora fino ad oggi in piena salute mentale e fisica, su una carrozzina a rotelle che non gli vietò di studiare ogni materia e negli ultimi anni, tecnologie moderne grazie anche al suo carattere curioso ottimista ed allegro nonostante le avversità.

Infatti negli ultimi anni e se la cavava benissimo al computer, tant’è che con l’unico braccio che poteva usare, riusciva a battere anche un ragazzino nei games di ogni tipo.

 L’amicizia tra John e Allen, nonostante le vite diverse, non venne mai a meno ed Allen convinse il suo fraterno amico a padroneggiare per anni e divertirsi con giochi di role play con i loro computer come fossero ragazzini fuori di testa.

  • Lo so, amico mio. Le nostre lune sono tante. Chissà se un giorno torneremo qui, o su un altro pianeta. -
  •  
  • Il solito esoterico figlio dei fiori, su quale pianeta poi?… Ma John, guarda quella vela laggiù… Sembra quella che Giampaolo mise a "Karuvium - il nostro regno” quando giocavamo su Second Life! Ah, che sciocchezza ho detto! -
  •  
  • Non era sciocchezza Allen! Per noi era vero, era un luogo dove eravamo liberi di essere ciò che volevamo, per finta ovvio, ma era stato divertente. A proposito Giampaolo e Stuart mi hanno scritto una settimana fa, stanno bene. -
  •  
  • Salutameli. Scrivi loro che lo zio Allen li pensa sempre, anche se ormai sono coetaneo di Matusalemme. -
  •  
  • Cambio discorso, o affogo nei ricordi amico mio. Dico solo, prima che me ne dimentichi che Giampaolo ora vive in riva al mare nel centro Italia come sognava ricordi? E così anche Stuart però sull’ Isola di Whight! -
  •  
  • Stuart aspetta per caso il ritorno della seconda parte del concerto del 1969? Ahahah. John stranamente anche noi viviamo vicini al mare, e quei due giovincelli li avevi sempre trattati come figli non solo nel gioco ma anche nella realtà quando li avevamo conosciuti di persona.
  •  
  • Ah si, che belle giornate sono state, sai che Giampaolo l’ho sempre considerato davvero come un figlio. Avevamo tante cose in comune a partire dall’Astronomia, Stuart invece era più… più… -
  •  
  • Più British John? -
  •  
  • Ahaha si si Allen, Stuart più che British era ed è molto Yorkshire e tu sei sempre troppo forte con le battute. Ma guarda l’ora, per te è il momento di rientrare purtroppo.
  •  
  • Grazie per essere venuto a prendermi, John, questa giornata è stata meravigliosa. Non so quante lune ci restano come dici tu, ma è sempre bello ritrovarsi. Credo di vedere Thomas sulla strada con l’auto che mi aspetta per tornare all’istituto. -
  •  
  • Hai ragione, fratello mio ma… Facciamolo aspettare cinque minuti ancora, che ne dici di una corsa sul pontile, come allora? -
  •  
  • Una corsa? Sei troppo vecchio! -
  •  
  • Allora camminerò veloce con te. -
  •  
  • Ok, amico mio. Pronti… via. -

John si porge dietro all’amico, afferra la carrozzina di Alle e insieme avanzano veloci un po’ traballanti verso il pontile, verso l’odore del mare, verso il profumo di salsedine, verso i ricordi lontani.

E il mare li accoglie ancora una volta, come se il tempo non fosse mai passato.

Dedicato a John ed Allen che ora corrono da lassù:

“Il mare ha accolto la memoria, il pontile ha custodito la corsa. Due amici hanno riso ancora, e la pagina si è chiusa nella luce.”

Giampaolo Daccò Scaglione

 

venerdì 19 dicembre 2025

FIGLI DI SERIE B

FIGLI DI SERIE B

“Ogni ferita è parola, ogni silenzio è memoria. 

Qui si incide la voce dei figli dimenticati.”

Fuori dalla camera del notaio, Luca avrebbe voluto piangere. Ma un uomo non lo fa davanti a tutti. Si era sempre sentito il figlio non amato, quello di serie B, sballottato tra nonni e parenti mentre i genitori, giornalisti importanti, portavano Massimo - il primogenito perfetto - nei loro viaggi. Bello, geniale, egoista e superbo, proprio come loro.

Davanti all’ufficio in centro a Milano, Luca osservava il fratello, la cognata e i tre nipoti: volti soddisfatti, incapaci persino di fingere dispiacere per la morte dell’arcigna madre e per il misero lascito che gli aveva riservato.

Luca era nato per caso, quattro anni dopo Massimo, durante un viaggio in California. Da bambino aveva già intuito la differenza: abbracci, regali, complimenti e inviti erano sempre per il fratello. Lui restava indietro, troppo piccolo per seguirli. 

I nonni lo adoravano, ma presto erano morti, e Luca era finito in collegio dai frati, mentre Massimo partiva per l’Inghilterra, in scuole di lusso.

Quante volte aveva pianto? Non lo sapeva. In quel collegio c’erano tanti ragazzi di serie B, ma Luca non riusciva a sentirsi parte di loro: era troppo introverso.

Poi lo scandalo: il padre trovato a letto con una cantante famosa in Francia. I giornali ne parlarono ovunque. La madre, Ludovica Monegaschi, riversò tutta la sua rabbia su Luca: “Sei uguale a tuo padre, uno che non vale niente…” erano le frasi più gentili.

Un giorno, nascosto in camera, sentì la madre confidare alla sorella Laura: “Era arrivato nel momento sbagliato, non potevamo permetterlo…” Laura le fece cenno di tacere davanti a Massimo. 

Non approvava, ma non voleva litigare. Alla fine propose di occuparsi lei di Luca. Ludovica accettò con sollievo: si era liberata di quel peso.

Così Luca, dopo il collegio, si trasferì a Trieste dalla zia. Furono gli anni più belli della sua vita: Laura era stata la madre che avrebbe voluto avere.

Gli anni passarono. La madre andò in pensione, Massimo si sposò con una nobile inglese e ebbe tre figli viziati. Luca li vedeva solo a Natale e Pasqua, sempre circondato da freddezza. 

Quando presentò Claudia, la sua fidanzata, l’inverno entrò in quel salone di lusso. Dopo qualche anno, Claudia se ne andò, stanca di sentirsi emarginata.

Luca rimase solo. Qualche avventura, nessuna relazione stabile.

Ed ora, davanti al testamento, riceveva le briciole: un piccolo appartamento in zona Solari e ottantamila euro. Tutto il resto a Massimo: villa, case, azioni, patrimonio.

Non aveva voglia di impugnare il testamento, né di spaccare la faccia soddisfatta del fratello. Nonostante tutto, aveva voluto bene a sua madre. Ma il dolore di non essere mai stato amato lo stava uccidendo.

“Bene caro fratello, grazie per aver accettato le volontà di mamma…” disse Massimo, stringendogli la mano senza abbracciarlo. La cognata lo baciò sulle guance, con occhi soddisfatti. Poi sparirono nella loro Mercedes.

Figlio di serie B. Lo era sempre stato, e lo aveva accettato. Ma questa volta era una ferita al cuore.

Non tornò subito a casa. Entrò in un bar vicino al tribunale. “Un caffè ristretto”, disse al cameriere. All’unisono, una giovane donna rispose: "Un caffè ristretto..." sorridendo continuò "Anche per me, grazie.”

Si guardarono, scoppiò una risata. I loro occhi si incrociarono e rimasero fermi per un istante.

Fuori, il sole brillava sulla città. La Madonnina dorata del Duomo scintillava come un segno di luce e di amore.

“Il dolore si è inciso, la pagina si è compiuta. E nel sole di Milano la speranza ha trovato casa.”

Sigillo universale:

“Non esistono figli di serie B, solo anime che cercano amore. Ogni lacrima è seme, ogni ricordo è luce. E nella pagina incisa tutti i dimenticati diventano fratelli.”

Giampaolo Daccò Scaglione

giovedì 18 dicembre 2025

GIANLUCA

GIANLUCA

“Ogni passo porta memoria, ogni ferita diventa voce. 

Qui si apre la storia di chi ha visto il baratro.”

La stradina di montagna finisce lì, proprio su ciglio del burrone dove Gianluca è appena arrivato e che ora vede sotto di se. 

Le punte dei piedi sono allineati al bordo, basterebbe un battito di ali di una farfalla per farlo cadere giù fino alla fine di baratro dove sottostante, scorre un torrente che porterebbe via con se il suo corpo e sangue, se l'avesse fatto precipitare.

Eppure Gianluca è lì, ritto davanti al nulla e con sotto il nulla, un vento leggero d'estate lo inonda mentre con gli occhi chiusi si domanda il perché e se è giusto ciò che sta facendo ora.

Mentre pensa questo, piccoli flash-back della sua vita gli passano davanti nella mente come un film color seppia, lenti e veloci allo stesso tempo, senza una spiegazione di come possa accadere una cosa del genere.

Attorno il silenzio e con gli occhi chiusi Gianluca rivede la strana commedia, la sua vita:

Sei incinta? E chi lo vuole sto bambino?

E che faccio lo cresco da sola?

E' nato uno sgorbio che mi ha messo in prigione!

Ed io? Come posso andare avanti a studiare?


Avevi detto che prendevi la pillola.

E tu invece vai a farti ogni gonna che passa.

E ti devo pure sposare.

Fai quel cavolo che ti pare, sto anche da sola.


Nipote mio ora vivi qui e fai quello che dico io.

La nonna è stanca ha da fare arrangiati.

Cara sorella tuo nipote è noioso e insopportabile.

Mia figlia e mio genero si sono separati e adesso?


Padre non mi tocchi più per favore ho paura.

Ragazzino ma io ti voglio bene sono solo carezze.

Prega e mangia e studia, il rettore si è arrabbiato ieri.

Vorrei scappare da questo collegio, sto male.


Questo è il tuo lavoro, catena di montaggio e muoviti.

Che stanchezza, dieci ore massacranti, come farò?

Senti pagami l'affitto subito, hai saltato un mese.

Oh non vieni mai a ballare con noi... Perché?


Ti amo Rosy, più della mia vita.

Ti amo Gianluca, sei l'unico per me.

Quando ci sposeremo vorrei tre bambini.

Si però due maschi e una femmina caro.


Ho trovato un altro, non ti amo più.

Rosy perché, che ho fatto?

Nulla hai fatto ecco perché, non sei nulla.

Quella ha trovato il pollo giusto Gianluca.


Da domani tutti a casa, chiude l'azienda.

Sei a casa? Mi dispiace se non paghi l'affitto fuori.

Mi dispiace ma lei non ha i requisiti per questo lavoro.

Alla sua età anche se giovane non possiamo assumerla.


Padre dove posso mettere la mia valigia?

Figliolo in quell'armadio accanto ad Ivanovic

Padre ieri sono sparite due cose a cui tenevo.

Non puoi dare la colpa al tuo vicino se non hai visto.


Per favore sto cercando un lavoro.

Vai via barbone, non ho niente per gente come te.

Per favore ho bisogno di mangiare.

Vai a lavorare fannullone e lavati che puzzi.


Che freddo con 'sti buchi nei pantaloni.

Le scarpe sono andate ormai.

Oh grazie per questi vestiti signora.

Non ti preoccupare almeno indossi qualcosa.


Via di qui lurido, fuori dal mio locale.

Ho da pagare almeno un piatto.

Puzzi e fai scappare i clienti via!

Piove a dirotto che faccio?


La strada era stata lunga per arrivare in montagna, soprattutto se fatta a piedi mangiando cose trovate tra rifiuti o in mezzo ai campi e sugli alberi, no non era stato facile.

Quelle montagne che aveva visto durante una piccola vacanza da bambino in collegio, dove quell'uomo con la tonaca nera gli aveva messo la mano nei pantaloncini corti.

Quelle montagne le aveva amate, gli sembrava allora, di vedere il cielo ed il paradiso.

Dopo alcuni giorni di cammino e dormendo in qualche fienile sotto le stelle, come un fioretto fatto ad un santo, Gianluca era arrivato in quel posto che ricordava.

Ora è lì in bilico, solo su un pendio grigio dove solo dei rapaci lontani volano ad un'altezza incredibile.

Gianluca apre gli occhi e li vede, vorrebbe essere come loro, libero da tutto, volare nel cielo infinito felice e sereno.

Ora i suoi occhi guardano il profondo di quell'abisso mentre un leggero capogiro lo fa indietreggiare un poco.

Riguarda di nuovo quel punto lontano dove un serpente d'acqua chiara, scorre veloce tra rocce ed arbusti, che voglia di lasciarsi andare.

Un fruscio alle spalle, lo fa voltare nella direzione del rumore ed un cane bruno dal pelo corto e dagli occhi neri e seri lo stanno fissando.

Un guaito come un richiamo, Gianluca torna indietro verso quell'animale ed istintivamente porge alla bestia il palmo della mano.

Il cane con la lingua lecca quel palmo dalla pelle secca e rovinata poi strofina la testa alle sue gambe e Gianluca scoppia a piangere.


Pluto, Pluto dove sei?

Un guaito leggero

Ah sei li in alto aspetta che arrivo.

Un secondo guaito festoso

Aspetta e... Ah eccoti ma non sei solo.

No è qui vicino a me, l'ho visto poco fa.

E tu che ci fai qui da solo alla fine della strada?

Volevo solo vedere il paesaggio.

Sicuro?

Terzo guaito, gli occhi del cane sono intensi.

Sono Marco, vivo nella baita laggiù

produco formaggi e salumi al paese più sotto

Siamo soli io e mio figlio ed è dura.

Tu che fai? Non ti vedo conciato molto bene

Qualcosa non va?


Mentre il sole sta tramontando dietro le vette, Gianluca con Marco e Pluto stanno camminando nella stradina che porta alla baita di quell'uomo con il cane.

Un raggio di sole li illumina prima di sparire dietro ad un costone, Gianluca sorride, forse qualcuno si occuperà di lui.

Forse la sua vita sta per cambiare e quel baratro lasciato alle spalle, rimarrà lì per sempre con nessuno che si butterà di sotto.

Marco mette una mano sulla spalla a Gianluca e come un figlio ritrovato lo fa entrare nella baita.

La porta si chiude alle loro spalle, Pluto rimane fuori in piedi a fissare l'orizzonte, mentre una stella brillante appare quasi all'improvviso nel rosso del cielo dopo che l'astro del giorno è scomparso all'orizzonte.

"Un altra anima salvata"

Un guaito e si accascia piano

scodinzolando sul tappeto morbido 

della veranda.

Per chi legge, per chi ha vissuto, per chi ha sofferto:

“Il vento ha portato i ricordi, il cane ha portato la carezza, l’uomo ha portato la mano. E la pagina si è chiusa con una stella di speranza.”

Sigillo di speranza: 

“Chi ha visto il baratro porta nel cuore la notte. Chi ha trovato una mano porta nel cuore la luce. Ogni anima salvata diventa stella nel cielo.”

Giampaolo Daccò Scaglione

mercoledì 17 dicembre 2025

FOTOGRAFIE

FOTOGRAFIE

Una foto dimenticata dietro un divano

"Ogni immagine che cade dietro un divano non è persa: 

diventa un frammento segreto, un sigillo che attende di essere ritrovato."

"Questa pagina è stata incisa nel giorno in cui una foto dimenticata tornò a farsi vedere. Il volto senza nome fu la mia ferita, la dedica senza firma il nostro segreto. E il sigillo custodisce la certezza che anche i ricordi spezzati possono diventare luce."

Quante foto sparse sulla scrivania: è difficile sistemarle tutte negli album vuoti appoggiati sulla poltrona accanto alla libreria. 

Ho sempre amato la fotografia e mi diverte tantissimo guardarle da lontano: un miscuglio di colori, di case, di montagne, di mari, di persone, di volti. 

Cerco di dividerle in base all’anno di scatto, alla vacanza, a un periodo bello o brutto. Sposto quelle con paesaggi vicino a quelle degli animali, poi all’improvviso la vedo: quella foto dimenticata da tanto tempo e nascosta chissà dove, come se non volesse più farsi trovare. 

Ho sempre pensato che si fosse persa in uno dei miei traslochi in città.

Quel volto è lì davanti a me dopo anni lontani, sorridente accanto a me, appoggiati a una staccionata, e dietro di noi il mare azzurro. Sul retro una dedica d’amore senza firma: lo faceva spesso, sui bigliettini, sulle lettere, sullo specchio del bagno, ma sempre senza il suo nome.

Il motivo per cui non lo scriveva mai l’ho sempre saputo fin dal giorno in cui la nostra breve e intensa avventura iniziò. Avevo accettato quel piccolo difetto senza discutere: neanche una sigla, niente. Ma mi andava bene così com’era.

La sua era una paura: la paura di essere riconosciuti, di sapere che quella persona nota avesse una storia con un perfetto sconosciuto, né ricco né bellissimo. Era terribile vedere il terrore negli occhi quando qualcuno ci fissava più del dovuto.

E nonostante i camuffamenti e le trovate - dagli occhiali al cappello, agli abiti anonimi - mi chiedeva sempre in tensione: “Mi avrà riconosciuto?”. “Non credo…” rispondevo io, sorridendo ma con una spina nel cuore. 

Non stavo con quella persona perché era famosa, anzi non la conoscevo neppure quando ci siamo visti la prima volta in quel locale di Milano. Mi stupisco ancora di come abbia potuto prendermi in considerazione a quei tempi.

Eppure mi sembrava bello stare insieme in posti dove nessuno ci conosceva. 

Ricordo che seguii una pubblicità che stava per girare vicino alla stazione centrale, mentre restavo nascosto tra la folla. E così il tempo passava e noi con lui.

Poi, in quel pomeriggio di primavera, mi disse quella frase che ricorderò per sempre: “È finita, il mio agente l’ha saputo e devo chiudere qui. Se hai delle foto nostre ti prego di ridarmele, mi dispiace.”

Fu terribile. 

Terribile il modo, terribile come aveva deciso tutto così in fretta, terribile non vederci più, terribile come cadde la mia stima nei suoi confronti. 

Tutte le foto tornarono nelle sue mani, compresi i negativi, tranne questa: involontariamente caduta dietro al divano quando le misi in una scatola per ridargliele. 

La trovai due giorni dopo, ma ormai non potevo più cercare quella persona. Sì, quella persona: non mi riuscì più di chiamarla per nome, neanche quando vedevo alcune foto sui giornali o in televisione.

Qualche tempo dopo passai davanti alla sua agenzia in centro, ma seppi da una truccatrice che incontrai nel bar vicino, del suo trasferimento a Roma e dei suoi fidanzamenti veri o presunti alla luce del sole. 

Mi venne da ridere: povero me, se avessi continuato.

Ora quella foto è qui tra le mie mani: una piccola testimonianza che sinceramente non dice più nulla. Due visi, il mio e il suo, anonimi nonostante a quel tempo il suo fu pubblico a tanti.

Non so se strapparla o rimetterla fra le altre. Poi vedo le mie mani dividerla in tanti pezzi… ma è solo un pensiero, la foto è ancora lì che mi guarda.

 Per me è stata la fine di un piccolo sogno e di un ricordo finito in nulla.

Giampaolo Daccò Scaglione

 

 

martedì 16 dicembre 2025

LOHARWYR IL TEMPLARE


 Loharwyr il Templare

Prologo:
 Non si sa se Loharwyr sia nato in carne e ossa o in sogno. Il suo nome è un sigillo che appare tra le pietre e le acque, come se fosse inciso da mani invisibili. 
Alcuni dicono che sia un ricordo di una vita passata, altri che sia un viaggiatore astrale, altri ancora che sia un cavaliere mai esistito, ma evocato dal bisogno di luce.

Loharwyr – La soglia di Asqalon

“Questa non è solo una storia. È un portale che si apre tra sogno e incarnazione, tra memoria e destino. 

Chi legge varca Asqalon, la città dei Cavalieri Templari, dove ogni nome è eco di vite passate e ogni croce luminosa è promessa di amore eterno.”

 Fine primavera 1208 D.C.

Le montagne brulle e le colline verdeggianti erano ormai alle sue spalle, davanti a se l'immensa pianura ricca di alberi e foreste davano un senso di fresco al suo corpo coperto da un'armatura di pelle pesante. 

Il suo viaggio era stato lunghissimo, già da più di un anno proseguiva col suo destriero in cerca di qualcosa che da tempo cercava.

Gli occhi azzurri spaziavano verso l'orizzonte e i capelli lunghi fino alla schiena color del fuoco volavano nella brezza di quella mattina fresca di fine primavera.

Loharwyr proveniva da terra celtica, il suo credo era il Druidismo. Ma da tempo sentiva parlare del figlio di un grande Dio d'Oriente, molto lontano da dove viveva. 

Non amò quel Dio raccontato da alcuni europei stanziati nelle sue terre, secondo lui era violento, un padre che non perdonava così lontano dal suo Dio Sole e dalla Dea madre che tanto ha amato. 

Dentro di se, nel suo animo, rimase affascinato dalle storie sul figlio di quel Dio d'Oriente che predicava in passato amore e pace e fu ucciso crocifisso con un tradimento da un suo apostolo. 

La sua curiosità lo fece partire poco più di un anno prima, la sua meta la terra d'oriente: Jerusalem.

Durante il viaggio, fermatosi in una città del sud Europa, aveva conosciuto due cavalieri dal manto candido e dalla croce rossa ricamata e dalle loro parole di amore per un figlio di un Dio tanto lontano. 

Erano bellissimi cavalieri nei loro abiti e ne subì un fascino misterioso. In quell'anno molte furono le sue avventure, fu ferito, conobbe gente straordinaria, vide animali strani e udì parlare lingue diverse ma la sua mente era rivolta verso l'oriente, la sua meta.

Dopo una settimana di marcia, e dopo aver fatto un bagno in un grande fiume di un blu intenso, rivestitosi e rifocillatosi dalla fame ecco che sul quel sentiero la vide. Vide quella spada conficcata nella terra, una croce lucente al sole e un corpo di un uomo riverso accanto, pensando fosse in stato di preghiera

Loharwyr scese silenzioso dal cavallo e si avvicinò a costui, una macchia di sangue colava dalla schiena di quel cavaliere dal manto bianco. L'avevano ucciso vigliaccamente colpendolo alle spalle.

Vide la ferita, era stata provocata da un pugnale dalla lama ondulata. I mori erano stati lì, un fez era per terra a fianco. Loharwyr si alzo di scatto e prese in mano la sua spada, forse erano ancora lì vicino e lo stavano guardando.

Un'ombra fu alle sue spalle ma girandosi di scatto riuscì a fermare quella mano assassina, il volto cattivo con quel ghigno scuro e malefico volevano ucciderlo. 

"Cane infedele" sentì nelle sue orecchie e cade pesantemente sotto quel corpo massiccio che puzzava di sudore e sporcizia ma ecco... D'improvviso il volto di Loharwyr fu sporcato di sangue, qualcuno alle spalle del moro gli conficcò una spada nella schiena.

Una voce profonda disse "Non uccidiamo mai se non in caso di estrema necessità... e questa lo è".

Loharwyr sentì la sua di voce ringraziare quella figura, l'altro sorrise ma gli occhi erano tristi, guardavano quel corpo del cavaliere dal manto bianco riverso e una lacrima scese sul volto barbuto.

Il possente cavaliere indossava un'armatura che alla luce del sole sembrava d'argento, un mantello bianco con la croce cremisi risaltavano quel bel volto segnato dal dolore. Aveva due occhi verdi ed i capelli sulle spalle biondi ed ondulati come la sua leggera barba.

Lo aveva guardato quasi con affetto ed un sorriso triste e dolce insieme, le mani forti avevano pulito la spada con uno straccio gettato via in un rivolo d'acqua sul margine della strada e si avvicinò all'amico ucciso.

"Aiutami a seppellirlo..." 

Loharwyr aiutandolo, fu affascinato dal rito con cui quell'uomo mise i resti del suo compagno nella madre terra e pianse con lui. 

Più tardi quando finirono e il cavaliere biondo disse preghiere nella lingua latina sopra il cumulo dove ormai giaceva il corpo di quell'uomo. Loharwyr disse a quel cavaliere simile all'altro del suo desiderio e questi sorridendogli misterioso lo invitò a seguirlo.

Marcello era il suo nome, gli rivelò di essere un Cavaliere Templare proveniente da una città chiamata Mediulanum e che con il suo gruppo si stava recando a Jerusalem. François era il suo compagno ucciso poco prima, erano diretti in quella città per aiutare un gruppo stanziato a Asqalon. 

In quell'istante Loharwyr, osservando la spada lucente con scritto un nome mai visto, capì qual' era il suo destino, Marcello sarebbe stato il suo maestro e l'Ordine la sua vita. 

Due mesi dopo, la sagoma del tempio della Città Santa era davanti ai suoi occhi anche se lontana qualche miglia, il sole del deserto la faceva illuminare come la Città Celeste del Dio, di cui ne aveva parlato Marcello durante il tragitto.

Loharwyr seppe dal suo compagno di viaggio che quella notte avrebbero dormito in un campo di ulivi sotto le stelle. Loharwyr il cui nome significava luce del sole, dal giorno che seguì quei cavalieri affascinanti fu chiamato Davide la luce di Dio.

Si svegliò di soprassalto nel cuore della notte mentre i suoi compagni di viaggio dormivano profondamente vicino a lui, sentì un formicolio nel corpo e una leggera luce azzurra dietro le stalle lo incuriosì. 

Muovendosi lentamente facendo piano per non svegliare nessuno, si diresse verso quel bagliore e non appena svoltato l'angolo della stalla, vide una grande croce azzurra luminosa sospesa nel cielo. 

Senti l'amore pervadergli il corpo e si ritrovò in ginocchio piangente. Rimase lì fermo inconsapevole dei minuti che passavano, finché la croce scomparve, una mano sulla spalla lo fece destare, gli occhi sorpresi di Marcello lo scrutavano nella notte.

Nel buio sotto una coperta di stelle la sua voce fu come un sussurro "Sei destinato a grandi cose fratello mio, quello che tu hai visto ha fatto si che la tua vita avrà uno scopo importante." 

Abbracciandolo Davide capì. 

Il mattino dopo Jerusalem era davanti ai suoi occhi e sorridendo insieme ai cavalieri dal manto candido entrò in città col cuore colmo di amore, forse il destino gli riservava un posto grandioso ma la mente era rivolta a quella croce, l'avrebbe servita per tutto il suo tempo come umile servo.

Epilogo:

"La storia non dice mai se Loharwyr sia stato un uomo, un sogno, un ricordo o un simbolo. Rimane sospesa, come le mura di Asqalon sull’acqua. È proprio questa ambiguità che la rende sacra: perché appartiene a tutti i mondi insieme."

Giampaolo Daccò Scaglione.

 

lunedì 15 dicembre 2025

QUEL MATTINO A NEW YORK


QUEL MATTINO A NEW YORK

“Ogni viaggio porta un incontro, ogni incontro porta una memoria. 

Qui si incide la storia di un mattino che non svanisce.”

New York City - Primavera 1996

Savvas un caro amico americano-cipriota, mi aveva invitato a passare una decina di giorni a casa sua a New York City, precisamente nei Kings ovvero Brooklyn per tutti, il distretto della metropoli considerata allora, la terza città italiana più popolosa.

Ero arrivato a metà maggio e la città o almeno i suoi parchi e alberi erano in fiore, avevo passato con lui quattro giorni intensi di turismo: mi aveva portato in vari posti di Manhattan e State Island, ma purtroppo lui doveva tornare presto, in quei giorni, al lavoro presso una famosa boutique di marca internazionale.

Avevo circa una sei giorni da passare da solo e così ci ritrovavamo a pranzo ed alla sera nel suo delizioso appartamento all'ultimo piano di una palazzina del quartiere di Geenpoint vicino al McCarren Park.

Quel mercoledì mattino soleggiato e caldo avevo deciso, dopo un'orribile colazione in un pub italiano poco distante dalla casa di Savvas, di fare una passeggiata fino al Central Park.

Le metropolitane erano fantastiche, piene di persone di vario genere, dove potevi essere si un numero tra milioni, ma un numero sempre diverso dal tipo "modaiolo" italiano di quel periodo, dove se non indossavi un Armani o Versace, eri invisibile.

Qui tutt'altra cosa... 

Un mondo fatto di persone di ogni tipo, avevo vicino un tipo in giacca e cravatta e a fianco uno sportivo super muscoloso che a momenti non indossava quasi nulla pur di mostrare. Due ragazze studentesse in piedi ridevano leggendo un quotidiano, la più sobria aveva i capelli color verde acqua...

Era come vivere in un mondo a parte e pensavo a quanto eravamo provinciali, seppur alla moda noi italiani.

Nel giro di mezz'ora neanche mi ero ritrovato sulla E72nd Street all'angolo della 5th Avenue ed il Central Park di fronte.

Avevo attraversato l'Avenue con decine di esseri umani frettolosi prendendo la Terrace Dr. che attraversava sinuosamente il parco per il largo.

Savvas, mi aveva parlato della statua di Andersen il famoso autore delle fiabe posta in quell'angolo della grande macchia verde di Central Park.

Infatti dopo un paio centinaia di metri, avevo svoltato a destra sulla stradina East Dr. verso la statua di Hans Christian Andersen trovandola quasi subito davanti a me e con sorpresa in mezzo a quel verde dietro alla bella opera di quell'autore, c'era il Conservatory Water.

Ne ero rimasto piacevolmente sorpreso.

Poi, dopo un giro attorno al laghetto, avevo visto una specie di cascatella il cui ruscello seguiva un lungo prato ed una stradina adiacente adornata da alcune panchine quasi nascoste da alberi, panchine vuote tranne una con una signora bionda seduta con le gambe accavallate.

Mi ero seduto un poco stanco e avendo qualcosa da mangiare nello zainetto, mi ero messo a pranzare con un panino, succo di frutta ed una mela.

Il vento mi aveva scompigliato i capelli e nel sistemarmi la fronte avevo visto quella signora bionda sorridermi, ricambiando anche io la sua gentilezza.

Si era alzata avvicinandosi a me: sulla sessantina, bionda con i capelli lunghi sulle spalle, vestita elegante ma sobria, una borsa Chanel al braccio ed un sorriso incantevole.

"Posso farle compagnia?" mi aveva detto sedendosi accanto.

"Oh certamente, si accomodi... Prego." le avevo risposto gentilmente, cercando di capire cosa volesse, stupendomi sentirla parlare l'italiano con accento americano.

"Appena l'ho vista ho desiderato di fare quattro chiacchiere con un italiano. Avevo capito subito che lo fosse sa? Dai vestiti, dal modo di camminare."

"E' un male o una bella cosa?" le avevo detto sorridendo.

Aveva riso di gusto, una donna bella, spiritosa ed allegra forse era un'italo-americana.

"Non sono italiana, sono nata e vissuta qui in questa metropoli se a questo sta pensando. Mio marito è italiano, di Milano e quindi ho imparato ad amare prima lui, poi la vostra lingua ed infine l'Italia, stupenda nazione."

"Anch'io sono di Milano, che coincidenza. Bella questa cosa signora."

"Si veramente, ma vorrei precisare che non sono la "tardona" si dice così da voi vero? Che tenta con un ragazzo più giovane"

Questa volta avevo riso anche io "Non l'avevo pensato le giuro e il termine tardona si usava quando mio padre era giovane, ora le donne sulla quarantina o cinquanta sono meglio delle giovani a volte."

"Ne ho sessantaquattro." Aveva detto lei dolcemente ma con gli occhi tristi, mi ero accorto solo in quel momento di quello sguardo. Che strano sembrava così vivace ed estroversa al momento.

"Le posso chiedere una gentilezza signor..."

"Giampaolo anche molti mi chiamano Paolo o addirittura Paolino."

Il suo sorriso si era spento di colpo, l'avevo guardata stranito come avessi detto qualcosa di spiacevole ma subito dopo lei aveva ritrovato di nuovo quell'espressione stupenda.

"Mi dica signora..."

"Eileen, Eileen Darkson Minetti. Ma di solito mi chiamano o Lyn o Mrs Minetti. So che le sembrerà strano chiederle una cosa: se io le facessi una foto mentre lei è seduto su quelle rocce davanti al ruscello, le dispiacerebbe?"

"No, no.. Anzi!" mi ero messo quasi subito seduto sulle rocce con dietro quel ruscello pieno di sassi colorati e lei nel frattempo si era messa a scattare dei fotogrammi, non capivo il perché di questa richiesta ma almeno qualche foto diversa dal solito a New York sarebbe stata originale.

"Sono fotografa di professione e lavoro per una testata abbastanza famosa, lei ha un viso particolare ed anche fisicamente ha un bel personale, Si dice così vero?" Annuii imbarazzato per il complimento.

"Grazie" le avevo risposto "Faccio danza e ginnastica a corpo libero, peccato per l'altezza. Forse avrei potuto fare l'indossatore secondo lei?" le dissi in maniera ironica.

Eravamo scoppiati a ridere.

Due ore dopo avevo la foto in mano in un pub nella Madison Avenue dove lei insistendo mi aveva offerto un caffè con un pasticcino, aveva fatto sviluppare poco prima una foto per farmi un omaggio ma ancora non capivo cosa ne facesse di quelle foto. 

"Tra poco devo andare in redazione, Giampaolo tu sei stato molto gentile a prestarti a questo lavoro. So che ti chiederai il motivo per cui ho voluto fotografarti e chissà cosa avrai pensato di me."

"Nulla di negativo Lyn." le avevo risposto dolcemente mentre lei mi accarezzava la fronte.

All'improvviso aveva aperto la borsetta sul tavolo, ne aveva estratto una fotografia e me la pose, rimasi davvero stupito: un ragazzo sui venticinque anni, seduto sugli stessi sassi davanti al ruscello sorrideva da quell'immagine. 

Una foto scattata almeno una decina di anni prima, visti gli abiti e i capelli del ragazzo, avevo alzato gli occhi su di lei, i suoi erano lucidi, io non avevo parole ma qualcosa avevo intuito.

"Lo so sembrerò pazza, ma da otto anni vengo una volta alla settimana in questo posto, vicino al ruscello sperando di ritrovare in qualche modo lui. 

La foto l'aveva scattata suo padre, mio marito prima che... Paul il mio "bambino", se n'era andato per sempre durante una rapina in un negozio di articoli sportivi" la voce le si stava incrinando, posai la mia mano sul suo braccio e lei l'aveva accarezzata.

"Quindi comprenderai cosa sia successo stamattina Giampaolo, gli assomigli poco ma quando ti eri seduto di fronte a me... Sentivo che oggi sarebbe stata una giornata fantastica anche se nostalgica. Un incontro che non dimenticherò mai."

"Neanche io Lyn, grazie a te e davvero sono dispiaciuto per tuo figlio e per la tua famiglia."

"Lo so, ti credo, ma ora devo andare." si era alzata mettendo la foto del figlio nella borsa, mi ero alzato anch'io e lei abbracciandomi aveva sussurrato:

"Non dimenticare mai questo momento, come non lo dimenticherò io, è come se il mio Paul fosse ritornato per un saluto anche se so che non è così. Riguardati e salutami la meravigliosa Italia."

Le avevo sfiorato con le labbra la sua mano e poi era uscita scomparendo tra la folla in quella strada trafficata.

Quella sera vedendomi taciturno sia durante la cena che davanti alla tv, Savvas mi chiese se fosse successo qualcosa a Manhattan quel giorno, si era accorto subito da quando ero andato ad aspettarlo davanti alla lussuosa boutique dove lavorava e durante il ritorno a casa aveva parlato solo lui.

"Si, è successa una cosa molto speciale." il mio tono aveva fatto si che lui spegnesse la tv e si era voltato guardandomi in modo stupito. "Ora ti racconterò una storia, una bella storia anche se..." avevo continuato porgendogli la foto fatta da Lyn.

Il sigillo di quel mattino a New York:

“Il vento ha portato il ricordo, la foto ha portato il segno, l’abbraccio ha portato la luce. E la pagina si è chiusa con un mattino che resta per sempre. Ogni incontro inatteso è un segno, ogni volto ritrovato è memoria. Il destino parla nei gesti, la vita si incide nelle foto. E ogni mattino speciale diventa eterno nel cuore.”

Giampaolo Daccò Scaglione

 

domenica 14 dicembre 2025

"NON HO PIU' FREDDO"

“NON HO PIÙ FREDDO”

“Ogni neve che cade custodisce un volto. Ogni silenzio trattiene una voce. 

Marco non è scomparso: vive nella memoria che scrive, nella luce che accompagna chi resta.”

Che strano, non ho più freddo. Poco fa mi sembrava di congelare tra questi cartoni, e invece i brividi che mi scuotevano dentro sembrano scomparsi. Che sonno… forse stanotte riuscirò a dormire.

Non è molto bello ripararsi dalla neve sotto un portico di periferia, ma almeno qui non c’è nessuno che mi disturba: né quelli come me, né quelli che vogliono a tutti i costi portarmi nei dormitori, dove mi sento peggio di quanto già sto.

Oggi, in un certo senso, ho avuto fortuna: due signori mi hanno offerto una merenda davvero buona. Strano che non si siano infastiditi dalla mia puzza… sono giorni che non riesco a lavarmi, ahahah. 

La gente in quel posto, dove mi avevano portato, mi evitava; ma con loro ero sicuro che non mi avrebbero cacciato da quel bellissimo locale. Va a capire le persone.

Che strano, non sento più i piedi. Forse mi sto rilassando piano piano. Qui fa sempre più buio, la neve cade copiosa, ma questa coperta e i cartoni mi aiutano tanto.

Se ripenso a quattro anni fa, quando mi mandarono via da “Casa Famiglia Serena” a Pavia, dopo aver compiuto diciotto anni… nessuno mi diede una mano a trovare lavoro o casa. 

Certo, il mio aspetto non è granché, ma non sono cattivo come molti pensano. Mi mancano due denti davanti e spesso sono sporco, ma non voglio disturbare chi passa.

È facile raccogliere qualche moneta per un panino: mi siedo vicino ai negozi in centro a Milano e, se non mi cacciano via, qualcosa riesco a ottenere. Una volta un gruppo di volontari mi portò in un posto dove mi diedero vestiti, mi lavarono e mi offrirono da mangiare. 

Ma quando entrai nel dormitorio, mi misi a piangere. Non volevo essere come quelli che vedevo. Non mi sentivo un barbone: ero uscito da poche settimane dalla casa famiglia, dove non mi trattavano male, ma non eravamo come loro.

No, non ce la facevo a stare lì. Così, quando i frati mi dissero che mi avrebbero aspettato l’indomani pomeriggio, non tornai più. Mi faceva troppo male il pensiero di diventare come loro. Eppure, in un certo senso, lo sono.

Che strano, non sento più le gambe e le mani… ma sto bene, chissà come mai.

In questi quattro anni sono stato in varie città, ma sono sempre tornato a Milano. Una volta ho lavorato nei campi per tre mesi, raccoglievo pomodori vicino a un grande fiume. Ci pagavano una miseria, e un lavoratore mi picchiò per il posto dove dormire. 

Così tornai qui. Poi persi due denti, dopo che due barboni mi picchiarono e mi rubarono quello che avevo raccolto quel giorno. Fossi stato più alto, forse mi avrebbero rispettato…

Che sonno, davvero tanto. Forse perché non ho mangiato niente. Non mi era mai capitato di sbadigliare così. Non riesco a tenere aperti gli occhi, eppure mi sento bene. 

Forse dormendo riuscirò a riposarmi. Anzi, domani tornerò dai frati: forse mi aiuteranno, e chissà se ritroverò quei signori dell’altra volta.

Oh, che bello… mi sto addormentando al caldo, finalmente.

“Sì, pronto centrale. Sono il Brigadiere Roberto Lanciano, vi chiamo da via Giuseppe Giacone, al passaggio sopraelevato della ferrovia. Ne abbiamo trovato un altro poco fa, senza vita, completamente congelato e coperto di neve… Sì, era sotto una tettoia di un’officina abbandonata. Probabilmente convinto di essere sotto un portico. Età? Forse venticinque anni o poco più. Mandate un’ambulanza, grazie. Buona giornata.”

“Buona giornata? È il terzo oggi che troviamo sepolto dalla neve… ed è il più giovane, brigadiere.”

Gli occhi dell’appuntato guardano con tristezza quelli del collega, ma da quello sguardo non trapela emozione: il brigadiere ha imparato da tempo a non svelare i propri sentimenti. Un lavoro duro.

Che bello… non ho più freddo ora. Che strano, e quanta luce attorno a me… forse è già giorno, e devo andare dai frati.

Giampaolo Daccò Scaglione